Quando Fayez Al Sarraj, premier del Governo di Unità Nazionale libico riconosciuto dall’ONU, ha incontrato a Parigi il presidente francese Emmanuel Macron alcuni giorni fa, intervistato dall’emittente France24 ha mandato un messaggio piuttosto chiaro al suo interlocutore: “Quello che ci aspettiamo dalla Francia, Paese amico della Libia”, ha rimarcato, “è che prenda una posizione più chiara, dica le cose chiaramente”. Il riferimento era naturalmente all’avanzata ostile di Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, a cui la stessa Francia non ha mai disdegnato di riservare attenzioni e, più o meno esplicitamente, supporto. Eppure, l’appello di Sarraj sembra essere stato recepito da Parigi, al punto che, allo stake out che ha preceduto le consultazioni chiuse del Consiglio di Sicurezza dell’ONU venerdì, l’ambasciatore francese Francois Delattre ha dichiarato esplicitamente che il suo Paese “riafferma il proprio sostegno al Governo di Unità Nazionale libico”. “Restiamo totalmente impegnati a sostenere lo sforzo dell’inviato speciale Salame”, ha proseguito, oltre che “più convinti che mai che non esista soluzione militare”, e che lo scioglimento dell’impasse passi per un cessate il fuoco “senza condizioni”.
La presa di posizione francese, comunicata da Delattre, sembra porre fine, almeno per ora, a settimane di ambiguità da parte di Parigi, e giunge alcune ore dopo dalla decisione di Sarraj – reduce dal suo tour europeo (in cui ha incontrato anche il presidente Giuseppe Conte) – di dichiarare sospese le operazioni di 40 compagnie petrolifere straniere, compresa la francese Total, a cui è stato chiesto di rinnovare le proprie licenze. Una mossa volta a mettere pressione (economica) sull’Europa e giunta, secondo il Guardian, dopo l’iniziale rifiuto del presidente Macron di assicurare esplicito sostegno a Sarraj.
Altra incognita, gli Stati Uniti, che, a fine aprile, avevano fatto naufragare insieme alla Russia una proposta di risoluzione avanzata dal Regno Unito fortemente critica nei confronti di Haftar, segnando così una rapida “giravolta” rispetto alla tradizionale linea (seppure moderatamente disinteressata al dossier libico) pro-Sarraj. Una giravolta confermata anche dalla telefonata intercorsa tra Trump e il rivale del premier riconosciuto dall’ONU, dopo la quale il Presidente USA “ha riconosciuto il ruolo significativo di Haftar nel combattere il terrorismo e nel mettere in sicurezza le risorse petrolifere libiche”. Così, alla vigilia del Consiglio di Sicurezza di venerdì, Sarraj è intervenuto sul Wall Street Journal affermando che “la Libia non può permettersi un altro tiranno” dopo Gheddafi, e augurandosi che il presidente Trump “avrà successo dove i precedenti presidenti” hanno fallito nel pacificare il Paese.
Secondo il Washington Post, nell’amministrazione Trump la tentazione di sostenere Haftar sussisteva già da tempo. Eppure, solo l’offensiva dell’uomo forte della Cirenaica nel sud del Paese nordafricano, con la conquista di giacimenti petroliferi chiave, avrebbe dato a Washington l’opportunità di cambiare strada – nonostante, i nostri lettori lo ricorderanno, la “cabina di regia” condivisa promessa a Conte a luglio –. A tale mossa avrebbero concorso la scadenza delle deroghe sulle sanzioni sul petrolio iraniano e la complessa situazione venezuelana, circostanze che avrebbero reso una priorità per gli USA assicurare la continua produzione di petrolio libico, concentrata nelle zone ormai controllate da Haftar. Altro fattore scatenante sarebbe stato l’incontro del 9 aprile scorso tra Trump e Al-Sisi, alleato chiave di Haftar. A sostenere quest’ultimo, anche gli Emirati Arabi Uniti, che, secondo un report confidenziale delle Nazioni Unite, potrebbero aver rifornito la Libia dei missili di fabbricazione cinese esplosi il 19 e 20 aprile scorsi, precedentemente mai usati nel Paese nordafricano e disponibili in soli tre Paesi: Cina, Kazakistan e, appunto, Emirati Arabi.
Nel frattempo, la situazione umanitaria nel Paese resta “drammatica”, come l’ha definita il rappresentante permanente della Germania all’ONU, Christoph Heusgen. Mercoledì, un’altra riunione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia ha ospitato il briefing di Fatou Bensouda, procuratore della Corte Penale Internazionale, presente a New York nonostante gli Stati Uniti le abbiano revocato il visto a causa delle indagini in corso a carico del personale militare americano in Afghanistan. Bensouda, oltre a parlare delle criticità e degli ostacoli affrontati dall’organismo nel tentativo di assicurare alla giustizia gli individui accusati di crimini di guerra, ha aggiornato gli Stati sulle conseguenze, tragiche, dei recenti scontri intorno alla capitale: quasi 50mila persone rimaste senza casa, e più di 440 vittime, di cui 23 civili.
Non solo: il Procuratore ha espresso preoccupazione per la condizione dei migranti nel Paese, che continuano ad essere soggetti a torture e trattamenti inumani nei centri di detenzione ufficiali e non ufficiali. Preoccupazione condivisa dall’ONU, soprattutto dopo che, martedì, un bombardamento ha colpito un centro di detenzione, ferendo almeno due persone. Nel frattempo, la nave Jonio della ong Mediterranea è stata sequestrata dal Viminale dopo aver portato in salvo 30 migranti a Lampedusa. La scorsa settimana, l’equipaggio aveva fatto sapere che un barcone con a bordo cento migranti era stato intercettato dagli uomini della Guardia Costiera libica; l’organizzazione aveva denunciato che i migranti erano stati ricondotti in Libia nonostante i continui combattimenti. Ai 36 migranti salvati dalla Marina Militare a 75km dalla Libia è stato invece consentito lo sbarco nel porto di Augusta, grazie alla presa di posizione del presidente del Consiglio Conte, che ha annunciato peraltro il ricollocamento dei passeggeri tra Francia, Malta, Lussemburgo e Germania. Ma solo poche ore fa, un barcone con almeno 70 migranti a bordo e salpato da Zuwara affondava al largo della Tunisia, con 60 dispersi e sole 16 persone superstiti.
Al termine della sessione di venerdì, nella quale si è discusso anche dei recenti drammatici sviluppi in Siria, si è appreso che, ancora una volta, il Consiglio di Sicurezza non ha approvato nessuna risoluzione sul complicato dossier libico, ma solo un press statement, che però, ci ha detto il Presidente del Consiglio, l’indonesiano Hasan Kleib, deve essere valutato come il primo di una serie di passi nella giusta direzione. Nella dichiarazione, gli Stati membri hanno espresso, come sempre, “profonda preoccupazione” per “l’instabilità a Tripoli e il peggioramento della situazione umanitaria, che sta mettendo a rischio le vite di innocenti civili e minacciando le prosepttive per una soluzione politica”. La richiesta del Consiglio è quindi stata quella di ottenere un cessate il fuoco e di un ritorno di tutte le parti a un processo di negoziazione politica.
Abbiamo quindi chiesto all’ambasciatrice britannica all’ONU Karen Pierce se Londra avesse ritirato al sua bozza di risoluzione – naufragata a fine aprile per l’opposizione di Russia e Stati Uniti –, e se il Consiglio si fosse occupato anche della situazione dei migranti nei centri di detenzione nel Paese e nel Mediterraneo, sempre più sfornito di navi di salvataggio. In merito alla risoluzione, Pierce ci ha assicurato che “non c’era altra scelta oggi”, ma che “è ancora sul tavolo, ed è nostra intenzione riportarla al momento opportuno”, una volta che ci sarà più chiarezza in merito agli sviluppi sul campo e si capirà se gli sforzi dell’inviato Salame di riportare in auge il processo politico avranno successo. Sulla questione dei migranti, ha assicurato che la questione è stata sollevata dal Consiglio, ma non ancora discussa in una sessione dedicata. “È un problema molto difficile”, ha spiegato, e ha aggiunto che il Regno Unito sta lavorando con tutta l’UE per fornire una risposta. Pierce ha poi citato alcuni aspetti del problema, tra cui “i pericolosi tentativi dei civili di attraversare il mare” e “i centri di detenzione” libici, e dichiarato di “apprezzare molto” lo sforzo fatto dai Paesi europei “che portano il peso” della gestione del fenomeno migratorio, “come l’Italia e la Grecia”. Quindi, l’Ambasciatrice ricordato che non esiste “una risposta semplice”. “L’unica cosa che possiamo fare tutti insieme e presto è agire ancora più duramente contro i trafficanti di esseri umani”. Neppure in questa situazione, insomma, l’Europa sembra pronta a discutere organicamente su come affrontare, insieme, il flusso migratorio. Tantomeno si parla di mettere in discussione l’accordo che ha appaltato alla Guardia Costiera locale il blocco dei migranti, e di tornare nel Mediterraneo a salvare vite: neppure ora che è evidente quanto la Libia sia lontana dall’essere considerata un porto sicuro.