Nonostante le gelide temperature a New York, quella di martedì è stata una mattinata bollente al Palazzo di Vetro, dove era prevista una sessione del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente, con al centro la questione palestinese. Una questione che, per la stessa natura degli equilibri geopolitici della regione, incrocia la mai sopita polemica con l’Iran tenacemente portata avanti da Israele e Stati Uniti sui tavoli diplomatici internazionali, e che, sul terreno, assume la forma di veri e propri scontri diretti che potrebbero preludere a un confronto ancora più grave.
L’antefatto delle discussioni in Consiglio di Sicurezza è stato l’attacco, da parte di Israele, contro alcuni obiettivi iraniani in Siria, condotto il 21 gennaio in pieno giorno, e preceduto addirittura da un annuncio ufficiale. Tale circostanza sembra marcare un netto cambio di strategia da parte di Tel Aviv, che non è nuova a condurre bombardamenti contro depositi di munizioni e convogli di Hezbollah o dei guardiani della rivoluzione iraniani in territorio siriano, ma lo fa, di solito, di notte e a sorpresa. Questa volta, Israele sembra aver voluto mandare un messaggio chiaro al suo acerrimo nemico mediorientale, messaggio pubblicamente reiterato dal rappresentante permanente di Tel Aviv all’ONU, Danny Danon, proprio al Palazzo di Vetro.
Danon, nello stakeout che ha preceduto la sessione del Consiglio di Sicurezza, ha tenuto a specificare che le bombe di Israele sono state una risposta al missile sparato ore prima dall’Iran da un sito militare vicino all’aeroporto di Damasco contro la zona delle alture del Golan, episodio che ha definito “una chiara violazione della sovranità” di Tel Aviv. Danon si è presentato davanti ai giornalisti con una mappa che sintetizzava quelle che ha descritto come le attività iraniane di finanziamento ai movimenti terroristici e ai suoi alleati nella regione. Finanziamenti che, a suo avviso, consistono, annualmente, di 4 miliardi di dollari al regime di Assad in Siria, di 1 miliardo di dollari a Hezbollah in Libano, di centinaia di milioni di dollari agli alleati sciiti iracheni, di decine di milioni di dollari ai ribelli Houti in Yemen, e di 120 milioni di dollari ad Hamas e alla Jihad Islamica a Gaza. Per un totale di 7 miliardi di dollari all’anno.
Iran’s Financial Terror Network in the Middle East
– Syria: 4$ billion
– Hezbollah (Lebanon): 1$ billion
– Shi’ite proxies (Iraq): Hundreds of millions of dollars
– Houthi rebels (Yemen): Tens of millions of dollars
-Islamic Jihad and Hamas (Gaza): 120$ million
TOTAL: ~7$ BILLION pic.twitter.com/SWTaM8kPXT— Ambassador Danny Danon | דני דנון (@dannydanon) 22 gennaio 2019
Accuse che l’Ambasciatore ha approfondito in Consiglio di Sicurezza: “Con l’aiuto di Saleh Al-Arouri, vice capo politico di Hamas, e di Saeed Izadi, capo della sezione palestinese della forza iraniana di Quds, l’Iran sta cercando di trasformare la Giudea e la Samaria in un quarto fronte militare contro Israele. Il silenzio della comunità internazionale consente all’Iran di continuare con le sue operazioni di aggressione per minare la stabilità in Medio Oriente”, ha affermato.
Danon ha anche parlato dei tunnel costruiti da Hezbollah per penetrare in territorio israeliano, tunnel sulla cui distruzione si è concentrata un’operazione militare di recente condotta da Tel Aviv: “Ne abbiamo appena scoperto un sesto che si insinuava oltre il nostro confine settentrionale”, ha fatto sapere l’Ambasciatore. Il Rappresentante Permanente ha addirittura accusato l’Iran di aver finanziato, negli anni scorso, “attacchi terroristici nel cuore dell’Europa”, e ha chiosato: “Siamo lieti che l’UE abbia annunciato sanzioni contro l’Agenzia per l’Intelligence iraniana e contro gli individui coinvolti in questi atti”.
A dare man forte ad Israele in Consiglio di Sicurezza, naturalmente, ci hanno pensato gli Stati Uniti, intervenuti nella sessione per bocca dell’ambasciatore Jonathan R. Cohen, Rappresentate Permanente attualmente in carica. Cohen ha denunciato, all’inizio del suo intervento, l’eccessiva attenzione delle Nazioni Unite sulla questione palestinese – argomentazione spesso usata dalla Missione a stelle e strisce almeno da quando Trump è Presidente –, a discapito di “altre minacce nella regione”. Non si può dire, in effetti, che l’iniziativa israeliana non sia riuscita, almeno in parte, a spostare l’attenzione da quanto continua ad accadere a Gaza e dalle rivendicazioni palestinesi davanti alla comunità internazionale. “Un recente evento positivo è stata l’approvazione della Palestina come presidente del G77 per il 2019, con l’incarico di guidare gli sforzi del gruppo per affrontare le questioni di interesse generale relative allo sviluppo”, ha puntualizzato l’osservatore permanente della Palestina all’ONU, Riyad H. Mansour. Ma la situazione resta critica. “Israele, la forza di occupazione, sta andando avanti con la campagna di insediamenti illegale, facendosi beffe della legge internazionale e della credibilità del Consiglio di Sicurezza, demolendo le case dei palestinesi, trasferendo con la forza civili palestinesi, compresi beduini vulnerabili, con quasi 550 persone, tra cui 216 donne e e 127 bambini, rese sfollate nel 2018”, ha denunciato Mansour. “Non dimenticheremo i 295 palestinesi uccisi dalle forze di occupazione nel 2018, tra cui molti bambini, i 29mila feriti”, record di vittime dalla guerra a Gaza del 2014.
Il tutto, a poche ore dall’allarme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui una grave carestia di combustibile nella striscia di Gaza sta mettendo in pericolo di vita molti pazienti negli ospedali. “La carenza di carburante sta rapidamente esaurendo le ultime capacità di resistenza del sistema sanitario a Gaza, interessato da una carenza cronica di farmaci, forniture mediche ed elettricità”, ha affermato Gerald Rockenschaub, capo dell’ufficio dell’OMS per la Cisgiordania e Gaza.
Amb Mansour:”The longer the intl. comm. tolerates this deplorable man-made crisis-whereby 2 million ppl being forced to live in an open-air prison in total isolation & desperation-the closer it will have come to losing its sense of humanity” #Palestine @UN
— State of Palestine (@Palestine_UN) January 22, 2019
In questo quadro, la Palestina ha annunciato negli scorsi giorni la sua intenzione di candidarsi nuovamente per la piena membership alle Nazioni Unite, nonostante gli Stati Uniti abbiano già annunciato un veto in Consiglio di Sicurezza. La Palestina si candidò già nel 2011, ma la sua richiesta non arrivò mai sul tavolo del Consiglio. Quindi, nel 2012 fu promossa da “entità” non-membro osservatore a “stato” non-membro osservatore, posizione che consente al Paese di firmare trattati di cui è depositario di Segretario Generale. In merito alla nuova candidatura, l’israeliano Danon ha spiegato ai giornalisti di ritenerla “un tentativo a vuoto”, visto che, ha spiegato, i palestinesi non sembrano disposti a negoziare con Israele e con gli Stati Uniti. “Se non darà luogo a una risoluzione in Consiglio di Sicurezza”, ha sottolineato l’ambasciatore, “magari farà uscire qualche titolo a Ramallah, ma questo tentativo non andrà da nessuna parte”.