Garantire l’asilo è uno dei gesti di solidarietà più antichi della storia dell’umanità. L’Alto Commissario ONU per i Rifugiati Filippo Grandi non usa giri di parole quando, presentando il suo rapporto davanti alla Terza Commissione, lancia il suo appello agli Stati a sostegno del Global Compact on Refugees. Un documento che appare meno controverso – perlomeno nell’ottica della politica – rispetto a quello che tratta di migrazioni in generale (Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration), e che, poche ore fa, dopo Stati Uniti, Australia e Ungheria, ha perso un altro pezzo: l’Austria.
Il motivo di tale differenziazione è presto detto, e ricalca la sostanziale ipocrisia che circonda la distinzione tra rifugiati e migranti “economici”, e che meriterebbe un capitolo a parte. Negare asilo a chi ne avrebbe diritto significa non rispettare la legge internazionale, ed è questa la ragione per cui anche la retorica xenofoba dei leader più agguerriti sull’argomento non si rovescia troppo esplicitamente, o perlomeno lo fa in misura minore, contro i rifugiati, ma si abbatte molto più apertamente sui generici “migranti” – quelli che il nostro Matteo Salvini chiama in blocco “clandestini” e Donald Trump “illegali” –. E i provvedimenti politici presi dai fautori del pugno duro sull’immigrazione vengono a prima vista giustificati proprio sfruttando questa differenza: l’obiettivo, dicono, è fermare l’immigrazione “clandestina”. È questa la ragione per cui Paesi che hanno fatto di questa lotta una bandiera – come gli Stati Uniti – hanno deciso di non firmare il Global Compact for Migration, ma restano, per ora, nell’alveo del Global Compact on Refugees.
Proprio alla “politica”, Grandi ha fatto riferimento quando ha invitato tutti i Paesi a “scrollarsela di dosso”, per mettere al centro valori come dignità e umanità che sono il cuore del patto sui rifugiati. Nel suo discorso, il capo dell’UNHCR ha enumerato le tante crisi mondiali che provocano una emorragia di profughi: è il caso del Venezuela, da dove nel 2015 sono partite 1.9 milioni di persone, del Myanmar, del Sud Sudan e, naturalmente, della rotta mediterranea con la Libia, pericolosissima tappa nel viaggio verso l’Europa. Proprio a questo proposito, Grandi ha ricordato che UNHCR e OIM si trovano sul campo, ma che la situazione è ancora critica: necessario, dunque, ripristinare la stabilità del Paese, ma, ancora prima, lavorare per garantire i reinsediamenti dei rifugiati, per preservare la garanzia dell’asilo in Europa, e soprattutto affrontare le cause alla radice delle migrazioni africane.
Nonostante l’invito di Grandi agli Stati di “scrollarsi di dosso” la politica quando si parla di rifugiati, il quadro resta particolarmente complesso. Perché quella separazione tra profughi e migranti appare pericolosamente scivolosa e innegabilmente sottile, soprattutto in casi, come quello della carovana dall’Honduras, in cui la politica minaccia (o promette) di non lasciar passare il flusso, ma a priori non può sapere chi e quanti avrebbero in effetti diritto ad ottenere l’asilo. Un discorso simile si potrebbe fare per le navi bloccate per giorni nei porti italiani, per poi essere dirottate in altri Paesi europei a cui il Governo di Roma chiedeva di condividere la responsabilità dell’accoglienza. Non solo. Parlando dello stesso patto con la Libia negoziato dal precedente esecutivo – ministro dell’Interno Marco Minniti –, ci si potrebbe porre la stessa domanda: quali e quanti, dei migranti rispediti indietro nel Paese dei “campi-lager” dalla Guardia Costiera libica, avrebbero avuto invece diritto di stare in Europa?
Nel rispondere alle domande e ai commenti degli Stati, Grandi ha, tra le altre cose, ringraziato gli Stati Uniti, che restano i principali finanziatori dell’UNHCR. Tuttavia, anche la posizione degli USA di Trump rispetto al Global Compact on Refugees appare controversa. Ufficialmente, infatti, Washington continua a sostenere il documento, nonostante l’abbandono del patto sulla migrazione. Eppure, anche rispetto ai rifugiati, le politiche del Commander-in-Chief sembrano nei fatti contraddire molti degli impegni contenuti nel Global Compact. Lo scorso settembre, l’amministrazione Trump ha infatti annunciato la sua intenzione di ridurre il tetto di ammissioni di rifugiati nel Paese nel 2019 (anno fiscale) da 45mila a 30mila – la quota più bassa della storia –. E secondo i dati del Dipartimento di Stato, già nel 2018 gli USA, Paese di 325,7 milioni di abitanti, hanno dato asilo soltanto a 22,491 profughi. Del resto, una delle prime azioni politiche intraprese dal Presidente, nel gennaio 2017, è stata quella di firmare un ordine esecutivo sui rifugiati, che sospendeva indefinitamente i programmi di reinsediamento per i profughi siriani e che temporaneamente vietava l’ingresso a persone provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana. Tutti provvedimenti accompagnati da una retorica inequivocabile: “The United States will not be a migrant camp, and it will not be a refugee holding facility —won’t be” (“Gli Stati Uniti non diventeranno un campo profughi, né un centro di accoglienza per rifugiati a cielo aperto”), aveva promesso lo scorso giugno.
D’altra parte, Grandi ha voluto mettere in rilievo il ruolo delle comunità locali che, mosse da umanità e soldiarietà, sono le prime ad accogliere i rifugiati in cerca di asilo: come il Bangladesh con i rohingya, perseguitati in Myanmar. Il capo dell’UNHCR ha anche sottolineato i risvolti positivi che l’arrivo di rifugiati può comportare per chi li accoglie: “Se si dà loro l’opportunità, i rifugiati possono essere catalizzatori di un senso di finalità comuni della nostra società, in altre parole, tutto quello che ci unisce e ci rende più forti per affrontare le sfide globali”, ha detto, sottolineando la resilienza e la determinazione di molti profughi incontrati nel corso dell’ultimo anno, in Paesi come Kenya, Siria, Iran e Colombia. Tutte belle parole, che sono anche lo spirito e il cuore pulsante del Global Compact on Refugees. Eppure, come già avevamo puntualizzato mesi fa sul Global Compact for Migration, quel patto, non legalmente vincolante, rischia di restare lettera morta. Perlomeno, a giudicare dalla crescente propaganda che circonda le migrazioni e che, trasformata in azione politica, finisce per impattare necessariamente anche su chi avrebbe diritto ad ottenere lo status di rifugiato.