Lunedì il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, al Palazzo di Vetro ha tenuto un discorso accorato sull’ambiente e sui cambiamenti climatici in atto. Secondo Guterres, il mondo sta affrontando “una minaccia esistenziale diretta” e deve passare rapidamente dalla dipendenza dai combustibili fossili da 2020 per impedire “il cambiamento climatico in fuga”. “Il cambiamento climatico si sta muovendo più velocemente di noi”, ha detto Guterres. “abbiamo bisogno di mettere il freno alle emissioni di gas serra mortale e guidare l’azione sul clima”. La crisi in atto è stata definita “urgente”, ma non è questo il problema principale: manca, secondo il Segretario delle NU, una leadership globale per affrontare i problemi climatici e ambientali. “La montagna di fronte a noi è molto alta ma non è insormontabile. Sappiamo come scalarla”, ha ribadito Guterres, “dobbiamo frenare le emissioni di gas a effetto serra e guidare l’azione per il clima”, passando dalla dipendenza dai combustibili fossili verso l’energia più pulita e lontano dalla deforestazione verso un uso più efficiente delle risorse.
Mentre si avvicina la data in cui si terranno i lavori della COP 24, la Conferenza sul cambiamento climatico dell’United Nations framework convention on climate change (Unfccc) prevista per dicembre 2018, non è solo Guterres ad aver parlato di politiche ambientali e delle loro conseguenze.
Le parole pronunciate da Guterres seguono di qualche giorno quelle del presidente delle Fiji che in Thailandia, a Bangkok, ha lanciato pesanti accuse rivolte al modo in cui è stato gestito il problema “ambiente”. Josaia Voreqe Bainimarama ha ribadito che scopo degli incontri del 2018 sarà “Concordare le linee guida di implementazione”, la “road-map” che permetta di fare qualcosa di concreto dopo il fallimento degli ultimi anni dovuto al passo indietro degli USA guidati da Trump che ha cancellato le promesse fatte a Parigi dall’allora presidente Obama. “Penso che tutti sappiamo che non abbiamo fatto abbastanza progressi, motivo per cui siamo qui in quella che chiamiamo una sessione negoziale “aggiuntiva””. Quella di Bainimarama appare come una presa d’atto del fallimento totale degli impegni finora sottoscritti da tutti i paesi del pianeta. “Stiamo discutendo da Rio, un quarto di secolo fa. Da quel tempo, sono state create nove nuove Nazioni e abbiamo vissuto una rivoluzione digitale. E dal quel momento anche il riscaldamento della Terra ha accelerato e i mari hanno continuato a salire. Nel nostro primo sforzo per affrontare il cambiamento climatico, sono state pronunciate decine di milioni di parole e quasi tutte le promesse sono fatte alle persone che rappresentiamo. Se tutte le nobili intenzioni di tutte le brave persone che hanno costruito questo processo dal 1992 potessero essere convertite in energia pulita, potremmo risolvere la crisi ora. Ma le intenzioni non sono azioni”.
Dello stesso avviso il primo ministro delle Samoa, Tuilaepa Aiono Sailele Malielegaoi, che durante una visita ufficiale in Australia ha lanciato un monito: “Qualsiasi leader mondiale che negasse l’esistenza del cambiamento climatico dovrebbe essere portato in un ospedale psichiatrico”. Ancora una volta il dito è stato puntato su Donald Trump che da sempre rifiuta di ammettere il rapporto di cause ed effetto tra le emissioni di CO2 e il riscaldamento globale. Ma le accuse di Sailele sono state rivolte anche ad altre potenze mondiali come India e Cina che, insieme agli Usa, sono “i tre Paesi che sono responsabile di tutto questo disastro”. Una politica, quella americana, che pare stia facendo nuovi proseliti tra i quali il premier l’australiano Scott Morrison. In un’intervista rilasciata nei giorni scorsi a Fairfax Media, Morrison ha spiegato i motivi di questa scelta. Alla fine in molti hanno pensato che la sua scelta (come nel caso di Trump), sia dovuta più a motivazioni economiche che a un reale convincimento scientifico. Morrison come Trump e un certo numero di capi di stato negano il rapporto di causa ed effetto tra i cambiamenti climatici e le azioni dell’uomo. Le conseguenze di questo rifiuto di ammettere ciò che è stato dimostrato scientificamente sono state citate da Guterres: enormi costi economici per l’umanità a fronte di un “approvvigionamento idrico resiliente ai cambiamenti climatici” e “misure igieniche che potrebbero salvare la vita di oltre 360.000 neonati ogni anno”, “aria pulita” ed “enormi benefici per la salute pubblica [e] in Cina e negli Stati Uniti”, ma anche “dei nuovi posti di lavoro nelle energie rinnovabili superano quelli creati nel petrolio e industrie del gas”. In vista dei lavori della COP24, Guterres ha preannunciato che parlerà di ambiente anche all’assemblea generale delle NU in programma questo mese, e poi agli incontri del G7 e del G20 e alle riunioni della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (FMI).
In realtà le sue parole non dovrebbero essere necessarie. Sono migliaia le ricerche condotte in ogni parte del mondo che dimostrano quali sono le conseguenze delle politiche adottate fino ad ora. Come il rapporto “The Carbon Loophole in Climate Policy” realizzato per Buy Clean da Ali Hasanbeigi e Cecilia Springer, di Global Efficiency Intelligence, e Dan Moran, di KGM & Associates, un’analisi cronologica della politica climatica dagli anni ’90 ad oggi. Dall’istituzione, nel 1992, dell’United Nations framework convention on climate change (proprio quella che organizza le COP internazionali) alla sottoscrizione, nel 1997, del Protocollo di Kyoto da parte dei primi 50 Paesi, azione che “inaugurò così formalmente l’era moderna della politica climatica internazionale, concentrandosi sui contributi nazionali per gli obiettivi di riduzione delle emissioni globali. Hasanbeigi e Moran hanno richiamato l’attenzione su un aspetto di cui in questi decenni si è parlato pochissimo: “Ciò che i negoziatori climatici degli anni ‘90 non sapevano all’epoca era che una serie parallela e simultanea di accordi commerciali globali avrebbe creato un’evidente scappatoia rispetto ai loro sforzi per contenere le emissioni di biossido di carbonio che causano i cambiamenti climatici”. Da decenni, nel silenzio più totale da parte dei media, gli obblighi dei vari paesi sviluppati di rispettare i limiti nell’impatto ambientale sono disattesi grazie allo strumento della “compensazione”. I paesi più industrializzati e quelli in via di sviluppo hanno continuato ad emettere sostanze inquinanti ben al di sopra dei limiti promessi negli accordi internazionali, in cambio dell’impegno di molti paesi sottosviluppati di emettere molto meno di quanto sarebbe stato concesso (grazie ad aiuti di ogni genere). Cosìm facendo la bramosia di crescita e modernizzazione di qualche centinaio di milioni di persone (e la crescita esponenziale della ricchezza di pochi) sono state ottenute in cambio di “un’impennata delle emissioni di carbonio che continua a perseguitare i sostenitori della politica climatica”. Secondo i ricercatori “in molti casi, i Paesi che hanno chiesto riduzioni nette delle emissioni di carbonio vedono queste riduzioni completamente o per lo più spazzate via quando viene presa in considerazione la scappatoia del carbonio. La tendenza generale è che i Paesi ad alto reddito e consumo elevato (Stati Uniti, Europa, Giappone, Australia e simili) hanno obiettivi dell’Accordo di Parigi calibrati sulle loro emissioni nazionali, mentre le loro impronte di carbonio reali sono molto più grandi”. Ma non basta. Secondo il rapporto, “quando vengono incluse le merci importate, le emissioni dell’Ue sono sostanzialmente rimaste allo stesso livello dal 1990”. “Le emissioni basate sul consumo in tutta l’Ue superano ora le emissioni totali basate sulla produzione del 25-30%; in alcune nazioni, la crescita delle emissioni basate sul consumo è sostanzialmente più alta che in altre”. Ai primi posti della classifica in base alla quantità di emissioni assolute e relative importate attraverso i prodotti commercializzati e i principali importatori di carbonio ci sono la Germania, il Regno Unito, la Francia, l’Italia e la Spagna. “Sono i governi i principali agenti di acquisto. Gestiscono flotte, costruiscono scuole e edifici e commissionano importanti progetti che utilizzano grandi quantità di acciaio, cemento e altri prodotti ad alta intensità di carbonio. Quando i governi fanno del “comprare pulito” una questione di politica, possono avere un impatto reale nel chiudere la scappatoia di carbonio”, secondo Hasanbeigi e Moran.
A confermare i pericoli connessi con il mancato rispetto delle promesse sull’ambiente fatte negli anni apssati è anche un altro studio, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change e realizzato da ricercatori della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston e della Harvard University Center for the Environment di Cambridge (Massachusetts). I ricercatori hanno dimostrato che esiste un legame tra le emissioni di CO2 e le percentuali di elementi nutritivi in alcuni alimenti. Secondo lo studio, elevate concentrazioni di CO2 causerebbero un calo dei livelli di ferro, proteine e zinco in ben 225 alimenti. Lo studio ha valutato le conseguenze che queste modifiche nelle colture potrebbero avere sulle popolazioni di ben 151 paesi. Il risultato è che, poiché nei prossimi 30-80 anni le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera (vista anche la mancanza di iniziative concerete e la “compensazione” da parte di molti paesi) aumenteranno dagli attuali 400 ppm ai 550 ppm, il contenuto di proteine, ferro e zinco di molte colture principali, come grano e riso, diminuirà di una percentuale variabile tra il 3 e il 17 per cento. Un aspetto questo, che, unito all’aumento della popolazione globale e alla percentuale di sprechi di cibo oggi diffusa in tutto il pianeta, non può non destare serie preoccupazioni.
Da decenni ricercatori e studiosi continuano a lanciare appelli per mettere in guardia sulle conseguenze delle emissioni derivanti da un uso smodato di combustibili fossili e sulle politiche sbagliate adottate dai governi. Un segnale diretto prima di tutto ai maggiori responsabili ma anche utilizzatori e fruitori di queste fonti energetiche, vale a dire i paesi più “sviluppati” e quelli in via di sviluppo, come la Cina e l’India. Ma le pressioni che le grandi industrie esercitano sui governi sono da sempre state più forti degli allarmi degli scienziati. Ora a lanciare l’allarme è stato il Segretario generale delle NU, Guterres. Un appello che viene lanciato in vista della prossima Conferenza delle parti (COP) 24 a Dicembre, ma che è facile prevedere sortirà scarsi risultati. A meno che le NU non decidano di assumere quella leadership globale che spetta loro, ma che fino ad ora non sono state capaci di avere.