Lo ha detto Guterres: “Un anno è passato, questa crisi non può continuare per sempre”. Soprattutto ora che un esplosivo report ONU della Fact-Finding Mission on Myanmar, sulle circostanze che hanno portato all’esodo di più di 700mila Rohingya dalla Birmania, parla, senza giri di parole, di “pulizia etnica”. Il Segretario Generale, nel suo discorso ai membri del Consiglio di Sicurezza – riuniti per rimarcare il primo anniversario dallo scoppio della crisi – non ha mai pronunciato la parola “genocidio”, anche se gli investigatori nominati dalle Nazioni Unite hanno dichiarato apertamente che gli alti funzionari militari birmani dovranno essere indagati e processati per i “più gravi” crimini contro i civili secondo il diritto internazionale. Anche Lise Gregoire-van Haaren, vice rappresentante permanente dell’Olanda all’ONU, parlando ai giornalisti prima della riunione del Consiglio, ha prudentemente puntualizzato che l’uso del termine “genocidio” sarà eventualmente legittimato da una corte di giustizia competente. Ma non ha mancato di definire “scioccata” la reazione degli Stati membri alla lettura del report, che pure, ha detto, non è stata una sorpresa.
In effetti, gli eventi parlano da un anno a questa parte, e parla anche il video che quest’oggi ha pubblicato il New York Times, e che mostra immagini a dir poco raccapriccianti delle violenze subite dai Rohingya. Materiale, scrive peraltro il quotidiano, sufficiente a portare il caso al cospetto della Corte Penale Internazionale (ICC). Ma la questione è complessa. Guterres ha salutato con soddisfazione l’adozione unitaria, da parte del Consiglio, di un forte e deciso Presidential Statement sulla crisi, ma i membri potrebbero ancora manifestare opinioni diverse a proposito della possibilità di portare la questione sul tavolo della ICC.
Le ragioni sono diverse. Russia e Cina sono tradizionalmente più “comprensive” nei confronti del governo del Myanmar, al quale sono legate da cospicui interessi economici. Non è un caso che, nella riunione appena conclusa, entrambi i Paesi si siano concentrati, più che sui risvolti giudiziari del caso, sulla necessità di fornire assistenza umanitaria ad entrambi i Paesi – il Myanmar e il Bangladesh, che ospita più di 1 milione di Rohingya entro i suoi confini -, favorendone il dialogo. L’Olanda ha invece richiesto esplicitamente l’intervento della Corte Penale Internazionale, ma una alternativa a ciò potrebbe essere la creazione di un tribunale speciale ad hoc, come accaduto per il Rwanda e l’ex Jugoslavia.
Quanto agli Stati Uniti, l’ambasciatrice Nikki Haley ha condannato con fermezza le ripetute e sistematiche violenze a cui i Rohingya sono sottoposti per la propria appartenenza etnica e ha ricordato le sanzioni che gli Stati Uniti hanno di recente imposto unilateralmente al Myanmar. Tuttavia, Washington non è tra i membri della Corte Penale Internazionale, e il presidente Trump non è generalmente un ammiratore dei meccanismi giudiziari trasnazionali. Londra, invece, è un membro fondatore, ma, nelle scorse ore, sembrava voler evitare di spingere per l’intervento della Corte a causa della mancanza di consenso generale nel Consiglio, preferendo supportare, dunque, un’indagine interna. Durante la riunione, tuttavia, Lord Ahmad of Wimbledon, ministro per il Commonwealth e le Nazioni Unite, ha spiegato: “È essenziale che il governo birmano chiarisca in che modo la sua Commissione d’inchiesta sarà in grado di indagare su questi crimini con piena imparzialità, come collaborerà con l’ONU e come sarà collegata a un processo giudiziario per rendere perseguibili i responsabili e, per essere chiari, in particolare i militari”. E ha proseguito: “Non è affatto chiaro se qualsiasi meccanismo istituito dalle autorità birmane possa farlo, motivo per il quale il Regno Unito è per mantenere aperta l’opzione di fare giustizia attraverso meccanismi internazionali”.
Se dunque il riconoscimento della crisi è unanime nel Consiglio, i suoi membri sembrano ancora divisi sui suoi risvolti penali e giudiziari. Tutti, d’altra parte, paiono consapevoli che “much more needs to be done”, si debba fare molto di più. Lo ha affermato il Segretario Generale stesso, che pure ha ricordato le diverse iniziative portate avanti dallo scorso settembre ad oggi: dalle prime condanne, agli appelli al Consiglio di Sicurezza; dall’impegno a lavorare con le autorità locali alla nomina di Christine Schraner Burgener come Inviata Speciale in Myanmar, fino al Memorandum firmato a giugno da UNHCR e UNDP, finalizzato a creare le condizioni per un sostenibile processo di rimpatrio dei rifugiati dal Bangladesh. Un processo che necessita di un massiccio investimento di risorse “non solo nella ricostruzione e nello sviluppo delle comunità che vivono nell’area più povera del Myanmar, ma soprattutto nella riconciliazione e nel rispetto dei diritti umani”. Eppure, ha tuonato Guterres, “non vedo ancora il necessario impegno per questo tipo di investimento”. Perché, ha ricordato poi – seguito a ruota da vari membri del Consiglio -, l’intervento umanitario internazionale nella crisi dei Rohingya resta sottofinanziato al 33%.

Del resto, già nel settembre 2017, c’era chi faceva notare che “il genocidio dei Rohingya non è iniziato il 25 agosto del 2017, o nel settembre del 2016, e nemmeno nel giugno del 2012. È andato avanti incessantemente, mentre il mondo girava, per svariati decenni”. A scrivere, Amal de Chickera, co-director dell’Institute on Statelessness and Inclusion e attivista dei diritti umani impegnato, per 10 anni, sulla questione dei Rohingya. Un concetto sottolineato, nel suo intervento, anche da Cate Blanchett, ambasciatrice dell’UNHCR che ha partecipato alla riunione del Consiglio di Sicurezza. “Ci sono più Rohingya che vivono fuori dal loro Paese di quelli che vivono in Myanmar”, ha ricordato, definendo “piuttosto imbarazzante” lo scarso impegno finanziario stanziato dalla comunità internazionale per i rifugiati di questa crisi. Blanchett ha ricordato con particolare commozione il suo recente viaggio in Myanmar: “Come voi ho ascoltato racconti atroci, storie di gravi torture, di donne violentate brutalmente, di persone che hanno perso i propri cari, alcuni li hanno visti uccidere davanti ai loro occhi. Bambini che hanno visto richiudere i nonni in case a cui è stato dato fuoco. Io sono una madre e ho visto gli occhi dei miei figli in quelli di ogni singolo bambino rifugiato che ho incontrato. Ho rivisto me stessa in ogni genitore. Come può resistere una madre vedendo il figlio gettato nel fuoco? Non dimenticherò mai le loro esperienze”. Quindi, ha lanciato un accorato appello: “Abbiamo già fallito in passato. Per favore, non falliamo di nuovo”. Un appello di cui la comunità internazionale si deve fare carico urgentemente, prima che trascorra un altro anno di stragi e violenze.