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ONU: ma se neanche le risoluzioni servono più, che speranza resta per la Siria?

Mentre la risoluzione 2401 è già fallita, il Consiglio di Sicurezza ancora continua a dire che bisogna "implement it"

Michela DemelasbyMichela Demelas
ONU: ma se neanche le risoluzioni servono più, che speranza resta per la Siria?

Una strada di Douma, Ghouta orientale, Siria (foto ONU)

Time: 5 mins read

Nel territorio dei ribelli, i bombardamenti non sono mai finiti, il cessate il fuoco non è mai iniziato, e evacuazioni e aiuti umanitari non sono mai partiti. Dopo 4 giorni dall’adozione della risoluzione 2401 approvata il 24 febbraio 2018, si può forse affermare “finalmente” che la tregua di un mese voluta dal Consiglio di Sicurezza ha già fallito. Già poche ore dopo quella riunione del Consiglio di Sicurezza, che era finita con un grande sospiro di sollievo, gli aerei dell’esercito siriano avevano ricominciato i bombardamenti, a quanto riporta l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

Così, è stata la stessa Russia, quella stessa che ha posto il veto sulla applicazione della risoluzione ed è stata condannata unanimamente, a negoziare delle pause. Ieri, 27 febbraio, la prima; cinque ore, dalle 9am alle 2pm. Oggi, 28 febbraio la seconda, sempre 5 ore. Da due giorni, governo e ribelli si scaricano a vicenda la responsabilità di impedire il passaggio dei civili della Ghouta orientale; le versioni sono contrastanti. E’ sicuro, però, che di corridoio umanitario e evacuazioni nemmeno l’ombra. Le tregue servivano a stabilire corridoi sicuri, ma gli attivisti dicono che non c’è stato nemmeno il tentativo di istituirli.

Inoltre, Alaa al-Ahmed, un attivista locale, ha dichiarato ad Al Jazeera che ci sono stati attacchi 9.30am di martedì 27 febbraio, 30 minuti dopo che la tregua proposta dalla Russia era iniziata. Secondo al-Ahmed, la Russia non fornisce alcuna garanzia e non ha nessun ruolo da “terzo” perchè possa aiutare ad evacuare i feriti dall’area. “Come possono le persone fidarsi della Russia – la stessa che ci bombarda – che si offre di assistere le evacuazioni di sicurezza”, ha detto, “c’è un’enorme contraddizione”.

Dall’altra parte, il Ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha detto, durante una conferenza stampa tenutasi il 27 febbraio, che in realtà dei corridoi umanitari erano stati creati, e che gli aiuti erano pronti ad arrivare ai civili. Ma, allo stesso tempo, ha detto che i ribelli erano la causa per cui non era stato possibile attuare la tregua e per cui gli aiuti ai civili non sono ancora stati portate. E durante il Consiglio sui Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, ha continuato che la Russia sarebbe rimasta impegnata al fianco della Siria nella lotta contro il terrorismo.

Ma Zeina Khodr, una corrispondente di Al Jazeera, ha riportato che i ribelli hanno smentito le accuse di Lavrov. “Stanno smentendo, dicendo che non stanno bombardando i corridoi e che le persone non vogliono andarsene perchè non hanno nessuna garanzia di sicurezza – non ci sono monitor internazionali”, ha dichiarato ad Al Jazeera.

Intanto, mentre lo scaricamento delle responsabilità va avanti in un gioco che sembra non finire mai, più di 550 civili hanno perso la vita durante le offensive nella Ghouta Orientale, o così riporta l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. Oggi, 28 febbraio, gli Stati Uniti denunciano che la Russia ha violato il suo dovere a garantire la distruzione di armi nucleari siriane. La tregua proposta dalla Russia riprenderà, forse, anche giovedì 1 marzo; ma, forse, sarà anche l’ultima. E si è “finalmente” trovata una pista sulla provenienza delle armi chimiche usate dalla Siria; vengono dalla Corea del Nord.

Ma mentre la situazione va complicandosi con un ritmo incessante, un ritmo con cui è difficile stare al passo, cosa succede nell’istituzione del Consiglio di Sicurezza? Nella riunione del 28 febbraio al Palazzo di Vetro, si confermava che “gli attacchi aerei e le offensive via terra continuano”. E poi che “addirittura, ci sono report di un altro attacco con il chlorine gas”, ha detto Jeffrey Feltman, il Sotto-Segretario Generale per gli Affari Politici.

“Mentre continuiamo… a raggiungere milioni di persone in urgente bisogno in aree controllate dal Governo Siriano, l’assistenza attraverso le linee di conflitto per le persone che si trovano in aree difficili da raggiungere è collassata nei mesi recenti. Senza che cambi la situazione, vedremo ancora più persone morire di fame e malattie più chedi bombardamenti”, ha detto Mark Lowcock, il coordinatore dell’Emergency Relief delle Nazioni Unite, sottolineando come sul campo la situazione rimanga non solo precaria ma anche tragica.

E allo stakeout successivo alla riunione, l’ambasciatore svedese Olof Skoog ha dichiarato: “Non abbiamo altro tempo da perdere… tutte le parti sono incluse nella risoluzione, siamo stati molto chiari…”. E quello francese ha aggiunto: “dobbiamo assicurare la piena attuazione della risoluzione sul campo. E la Siria prima di tutto deve “implement it”. E l’ambasciatore Siriano, Bashar Jaafari, ha dichiarato: “non possiamo attuarla da soli. Noi supportiamo la risoluzione. Ma vogliamo che continui la lotta al terrorismo. Bisogna che gli altri smettano di vendere e mandare armi ai terroristi, se vogliono garantire le condizioni favorevoli. Il Consiglio di Sicurezza ha tenuto tre giorni di negoziazioni, con noi e con la Russia. Ma se davvero fossero stati determinati a combattere il terrorismo, non avrebbero dovuto escludere l’argomento Isis dalla risoluzione”. Per farla breve, le stesse parole che si erano usate durante le altre riunioni del Consiglio sulla Siria. Niente di nuovo dal punto di vista istituzionale.

Ma qualcosa di nuovo c’è, ed è dal punto di vista delle persone sul campo. Questo conflitto è quello più atroce di tutta la questione siriana, una questione che, tra l’altro, tra due settimane compirà il suo ottavo anno. Durante un periodo così lungo, centinaia di migliaia di civili sono stati uccise; milioni sono state costrette a lasciare le loro case e fuggire, rifugiandosi in Paesi vicini. Forse è davvero il caso di passare ai fatti, o questa dicotomia tra Comunità Internazionale e vittime non si sanerà mai.

“Siamo pronti ad entrare nella Ghouta orientale, ed evacuare centinaia di vittime, ma lo faremo quando le condizioni di sicurezza lo permetteranno”, ha dichiarato Jens Laerke, il portavoce per l’Ufficio di Coordinamento per gli Affari Umanitari, durante il press briefing del 27 febbraio a Ginevra, “nella situazione attuale, questo non è possibile”. Anche Alessandra Vellucci, direttrice dell’Information Service delle Nazioni Unite a Ginevra, ha detto che la sua Organizzazione è pronta ad agire, ma prima “bisogna essere sicuri che non ci siano ostacoli, fisici o amministrativi”.

Ma allo stesso tempo, sicuri non si può essere, perchè la trattativa politica e la cooperazione sta funzionando davvero male. “La risoluzione riguarda tutte le parti”, avevano sottolineato tutti i leader quel sabato in cui era stata adottata. Ma, evidentemente, qualcuno si era dimenticato di avvisare la Turchia che, anche lei, era una parte in gioco. Senza sentirsi minimamente toccata, la Turchia sta continuando le operazioni militari nella regione Afrin, contro People’s Protection Units. E, attaccata da Heather Nauert, il Portavoce del Dipartimento di Stato USA, la Turchia ha fatto praticamente finta di niente. “La Turchia non è una delle parti del conglitto Siriano”, ha dichiarato il portavoce del Ministro degli Esteri Turco, Hami Aksoy, dicendo che Nauert “non ha capito il punto il punto fondamentale della risoluzione, o vuole distorcelo”.

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