Dal Consiglio di Sicurezza all’Assemblea Generale. La scottante questione di Gerusalemme Est, drammaticamente riapertasi dopo la decisione degli Stati Uniti di Donald Trump di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo dunque ufficialmente quest’ultima quale capitale di Israele, è giunta questa mattina davanti all’Assemblea, con una sessione d’emergenza caldeggiata dal Rappresentante Permanente dello Yemen Khaled Hussein Mohamed Alyemany e dall’ambasciatore della Turchia all’ONU Feridun H.Sinirliolu, leader del Gruppo Arabo e del Summit of the Organization of the Islamic Cooperation. Presenti alla riunione, il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki e il suo omologo turco Mevlut Cavusoglu.
Così, sotto l’imponente simbolo dorato delle Nazioni Unite che fa bella mostra di sé nella maestosa sala dell’Assemblea, è andato in scena uno show in grande stile, fatto, innanzitutto, di proclami, di condanne, di sdegno e anche di latenti ma lapariane minacce. Perché i relatori che si sono alternati sul palco, nel riaffermare il proprio punto di vista sull’annosa questione israelo-palestinese, hanno di fatto animato un dibattito certamente destinato a rimanere nella storia delle Nazioni Unite, ma il cui risultato, in ultima istanza, resta non vincolante. Sì: il testo è passato in larga maggioranza, con 128 voti a favore, 9 contrari, 35 astensioni e 21 Paesi che non hanno votato. Eppure, in conformità con gli articoli 10 e 14 della Carta, le risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale, a differenza di quelle del Consiglio di Sicurezza, vengono generalmente considerate delle semplici “raccomandazioni” agli Stati membri. In questo senso, l’approvazione della risoluzione era sin dall’inizio destinata a restare un atto meramente simbolico, e, per così dire, per gli Stati arabi soltanto una “vittoria di Pirro”.

Ciò non significa che quello “show” non sia stato in sé storico, significativo, e indicativo della persistente divisione della comunità internazionale su una crisi che dura da un cinquantennio, e che resta drammaticamente irrisolta. Certo: la stragrande maggioranza dei Rappresentanti che sono intervenuti nell’Assemblea Generale (dalla Turchia al Pakistan, dall’Indonesia al Venezuela), si sono espressi a favore dei Palestinesi. Ma la loro voce insieme, forse, non è riuscita a eguagliare in risolutezza quella, priva di qualsiasi ombra di esitazione, dell’ambasciatrice americana Nikki Haley, che da quel palco ha manifestato senza giri di parole l’indignazione degli Stati Uniti per l'”affronto” ricevuto dalla comunità internazionale.
Un affronto iniziato pochi giorni fa al Consiglio di Sicurezza, che, il 18 dicembre scorso, su iniziativa egiziana, ha presentato una bozza di risoluzione che rifletteva la preoccupazione degli Stati dopo l’ultima, dibattutissima mossa di Donald Trump. Risoluzione che riaffermava la posizione ufficiale delle Nazioni Unite su Gerusalemme, e che dichiarava che “qualunque decisione e azione che si propone di alterare il carattere, lo status e la composizione demografica della Città Santa di Gerusalemme non può avere effettività legale, è senza valore e deve essere annullata in accordo con le rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza”. E sul testo, naturalmente, nonostante il voto favorevole di 14 membri del Consiglio, gli USA non hanno esitato a porre il veto, esprimendo il proprio sdegno di fronte ai colleghi.
At the UN we’re always asked to do more & give more. So, when we make a decision, at the will of the American ppl, abt where to locate OUR embassy, we don’t expect those we’ve helped to target us. On Thurs there’ll be a vote criticizing our choice. The US will be taking names. pic.twitter.com/ZsusB8Hqt4
— Nikki Haley (@nikkihaley) December 19, 2017
Ci è voluta solo qualche ora perché l’ambasciatrice Haley, su Twitter, riaffermasse pubblicamente la propria posizione. Promettendo peraltro che gli Stati Uniti avrebbero preso i nomi di chi ha votato a favore della risoluzione. E l’intervento di fronte alla platea riunita dell’Assemblea Generale è stato del medesimo tenore. L’Ambasciatrice ha infatti ricordato come lo stesso Ban Ki-Moon, nel suo discorso di addio davanti al Consiglio di Sicurezza, abbia ammesso che nei confronti della questione israelo-palestinese ci sia stata un’“attenzione sproporzionata” da parte delle Nazioni Unite: “Decenni di manovre politiche hanno creato un volume sproporzionato di risoluzioni, rapporti e conferenze”, aveva osservato, in molti casi, piuttosto che aiutare la causa palestinese, hanno “impedito all’ONU di svolgere il suo ruolo con efficacia”. Un errore, secondo la Haley, che pesa sulle Nazioni Unite come istituzione. Israele, ha specificato, deve lottare per la sua sopravvivenza e per i valori che da sempre esprime, valori che gli Stati Uniti non possono che difendere. “Lo facciamo perché rappresenta ciò che siamo come Americani”, ha specificato. Un ruolo che, ha tuonato, gli Stati Uniti, in quanto principale contributore dell’ONU, si aspettano che venga riconosciuto e rispettato. Altrimenti, ha chiosato, diventerebbe legittimo decidere di “spendere le nostre risorse in modo più produttivo”.
La Haley ha ribadito la posizione ufficiale dell’amministrazione Trump sul tema: la decisione di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme è stata presa in accordo con una legge del Congresso del 1997, e non pregiudica né la soluzione dei Due Stati, né le decisioni prese nel 1967 sui confini. “In quanto nazione sovrana”, ha osservato la Haley, “abbiamo il diritto di scegliere la location della nostra ambasciata”. Ma soprattutto, ha aggiunto, riferendosi al voto di lì a poco effettuato, “ce lo ricorderemo quando alcuni di voi verranno a chiederci più soldi”. Una formula ancora più esplicita della precedente versione “We are taking names”, che pure aveva già fatto scalpore. “Nessuna decisione delle Nazioni Unite potrà influenzare la politica americana sull’argomento”, ha infine tuonato, “ma farà differenza su come gli Usa guarderanno alle Nazioni Unite”, ha promesso.
We appreciate these countries for not falling to the irresponsible ways of the @UN: pic.twitter.com/a0hUTepD8H
— Nikki Haley (@nikkihaley) December 21, 2017
Una “minaccia” neppure troppo velata che, pur non avendo modificato il grosso del risultato della votazione – che ha registrato una larghissima maggioranza a favore della risoluzione –, potrebbe forse aver in parte influenzato la decisione di alcuni dei 35 Paesi che si sono astenuti, o dei 21 che non hanno votato. Ha destato in particolare dello stupore l’astensione del Canada del progressista Justin Trudeau.
Ma le sorprese non sono finite qui: perché, allo stake out conclusivo con i giornalisti, dopo aver definito fermamente Gerusalemme la propria capitale, il ministro degli Esteri palestinese al-Maliki ha risposto a una domanda della “Voce” che gli chiedeva come si comporterebbe nel caso in cui gli Stati Uniti riconoscessero la parte Est della Città Santa – secondo i confini del 1967 – capitale della Palestina. “In quel caso sarebbe molto diverso”, ha risposto l’Ambasciatore, facendo di fatto cadere il dogma – tanto caro, pur su fronti opposti, a israeliani e palestinesi – sull’indivisibilità di Gerusalemme. “Ma non credo che gli Stati Uniti avrebbero questo coraggio”, ha però puntualizzato. Un’affermazione destinata a far scalpore, e sulla quale, chissà, forse la stessa amministrazione e Nikki Haley medesima avranno, in futuro, qualcosa da dire.