E’ giunta come uno tsunami, al Palazzo di Vetro, la decisione degli Stati Uniti di Donald Trump di spostare la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gersualemme, riconoscendo dunque a quest’ultima il tanto dibattuto status di capitale. Una decisione ampiamente attesa e annunciata, ma certamente destinata a suscitare scompiglio nella comunità internazionale, in relazione alla sua posizione sulla complicata e mai sopita questione israelo-palestinese. Nonostante – giova ricordarlo – sia stato lo stesso Congresso Usa ad approvare, nel 1995, il “Jerusalem Embassy Act”, la legge sull’ambasciata di Gerusalemme che invita il Paese a trasferire la sua sede diplomatica nella Città Santa, come atto vincolante ma che prevede una clausola in base alla quale i Presidenti americani possono rinviare l’attuazione della legge ogni sei mesi. Una deroga firmata sistematicamente da Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama.
Eppure, la mossa di Trump – frutto di una strategia calcolata che riguarda, più in generale, i delicati equilibri complessivi mediorientali – rischia di essere letta come un’implicita negazione di quella che, dal 1947 a questa parte, è la posizione ufficiale delle Nazioni Unite, che, fin dalla Risoluzione 181, attribuivano alla contesa città di Gerusalemme uno status ad hoc, rigorosamente sotto il controllo internazionale. De iure, infatti, la gran parte dei membri dell’ONU e delle organizzazioni internazionali non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele, né la sua annessione della sua parte Est, e la maggior parte delle ambasciate estere in Israele si trovano nel distretto di Tel Aviv.
E la posizione dell’ONU, di fatto, ad oggi non è cambiata. Lo ha sottolineato il segretario generale Antonio Guterres, a poche ore dall’annuncio degli States: “Dal primo giorno come Segretario Generale ONU ho consistentemente detto di essere contro ogni genere di soluzione unilaterale che mettesse a repentaglio le prospettive di pace tra Israele e Palestina”. E ancora: “Gerusalemme è una questione che deve essere risolta attraverso la negoziazione tra due parti”. Perché “voglio essere chiaro: non esiste nessuna alternativa alla soluzione a due Stati. Non c’è nessun piano B”.
Nonostante non abbia dunque mutato la propria posizione in merito, l’ONU – è evidente – si ritrova ora tra le mani una patata bollente. Tanto più che la mossa di Trump sembra aver riattizzato le scintille di un conflitto mai sopito, potenzialmente ridestando l’intifada palestinese. Dal canto suo, il Presidente si è difeso su Twitter, pubblicando un video in cui Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama dichiaravano a parole di considerare Gerusalemme capitale di Israele, notando però che “io ho mantenuto la promessa che ho fatto in campagna elettorale – altri non l’hanno fatto”.
I fulfilled my campaign promise – others didn’t! pic.twitter.com/bYdaOHmPVJ
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 8 dicembre 2017
In tale scenario, la riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dedicata alla questione non è giunta affatto inattesa. Una riunione a cui ha partecipato in videoconferenza, in qualità di briefer, lo Special Coordinator Nickolay Mladenov, che si è detto “particolarmente preoccupato sui rischi potenziali di una escalation violenta”. Il Coordinatore ha affermato che sia per gli Israeliani che per i Palestinesi, Gerusalemme “è e rimarrà una parte integrante della propria identità nazionale”. Mladenov non ha usato giri di parole: “Esiste un serio rischio […] che questo inneschi una catena di azioni unilaterali, che possono solo minare il raggiungimento del nostro obiettivo condiviso”, ha confessato. Timori del tutto fondati, se si pensa che, secondo l’Office for Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), il bilancio delle proteste di queste ore è già di un palestinese ucciso e di più di 140 feriti. Il 7 dicembre, secondo quanto riferito, dalla Striscia di Gaza sono inoltre stati lanciati sei missili dalla Striscia di Gaza verso Israele.
In questo contesto, l’ambasciatrice Usa Nikki Haley ha voluto ribadire di fronte al Consiglio il significato della decisione di Trump: “Le nostre azioni”, ha spiegato, “sono finalizzate a far avanzare il processo di pace”. Un processo che, a suo avviso, progredisce “quando tutte le parti sono oneste le une con le altre”. E “le nostre azioni”, ha aggiunto, “riflettono una onesta valutazione della realtà”. “E’ importante essere chiari su quella che è stata esattamente la decisione del Presidente”, ha proseguito. “Il Presidente ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono l’ovvio, e cioè che Gerusalemme è la capitale di Israele”. Questo, a suo avviso, è il significato dello spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv. Dall’altro lato, ecco ciò che, secondo Haley, il Presidente non ha fatto: “Gli Stati Uniti non hanno preso posizione sulle frontiere o sui confini. Le specifiche dimensioni di sovranità su Gerusalemme devono ancora essere decise da Israeliani e Palestinesi nei loro negoziati”, ha sottolineato.
E in effetti, che il destino di Gerusalemme debba essere il risultato dei negoziati tra le due nazioni – nel quadro della soluzione a due Stati – lo hanno affermato ampiamente tutti i membri del Consiglio. Lo ha dichiarato a chiare lettere lo stesso ambasciatore italiano Sebastiano Cardi: “Crediamo che lo status di Gerusalemme quale futura capitale dei due Stati necessiti di essere negoziata tra Israele e la Palestina”. Fino ad allora, ha proseguito, “l’Italia continuerà ad attenersi all’importante risoluzione delle Nazioni Unite e”, ha sottolineato, “manterrà l’ambasciata a Tel Aviv”.
Davanti ai Quindici sono intervenuti anche il Rappresentante Permanente di Israele Danny Danon e l’Osservatore Permanente dello Stato di Palestina Feda Abdelhady-Nasser, le cui posizioni, sulla questione, sono apparse comprensibilmente distanti. Danon ha ringraziato gli Stati Uniti per la loro “scelta coraggiosa”. E, mostrando al Consiglio la copia di una antica moneta ritrovata presso il sacro sito del Monte del Tempio, ha ricordato che “settant’anni fa, gli ebrei hanno fatto ritorno in patria a Gerusalemme”, invitando “tutte le nazioni del mondo a unirsi a noi quest’anno a Gerusalemme, la capitale dello Stato d’Israele”.
Un intervento che certamente non è piaciuto a Abdelhady-Nasser, il quale, innanzitutto, ha mandato un messaggio chiaro, volutamente in lingua araba, ai suoi connazionali palestinesi: “Da questo podio, desidero elogiare il nostro grande popolo palestinese, che oggi difende Gerusalemme, le sue strade e i suoi quartieri”, ha detto. E ha definito l’annuncio di Trump “estremamente condannabile”. “Non ci sarà mai una giusta e duratura soluzione alla questione palestinese senza una giusta soluzione alla questione di Gerusalemme”, ha ribadito. “Gerusalemme è sempre stata il cuore della Palestina e lo sarà sempre”, ha sentenziato. Un’importanza riconosciuta storicamente da tutti i musulmani che, ha affermato, non può essere sottostimata né cancellata.
Nasser ha rievocato la Risoluzione 181, che ha designato la città un “corpus separatum”, e ha ribadito che “la sovranità di Israele su Gerusalemme non è mai stata riconosciuta da nessuna nazione, e il suo status rimane una questione irrisolta”. Inoltre, ha proseguito, “Gerusalemme Est rimane un territorio occupato dal 1967, e una parte integrante del resto del territorio palestinese occupato”, confermato come tale sulla base di diverse risoluzioni e dunque del diritto internazionale. “La decisione degli Stati Uniti non può cambiare questi fatti”, ha scandito per ben due volte l’Osservatore. E ha chiesto, ancora una volta senza esitazione alcuna, al Consiglio di Sicurezza di riaffermare “la sua chiara posizione sullo status di Gerusalemme e di esplicitare il proprio rifiuto per tutte le violazioni”, da chiunque e da qualunque luogo esse provengano. Compresa – si legge tra le righe – la stessa superpotenza mondiale.