E’ una settimana decisiva, per quella che l’inviato speciale ONU in Siria Staffan De Mistura ha definito una delle “più gravi crisi nella storia delle Nazioni Unite”. Perché la nuova sessione di negoziati fissata a Ginevra per questi giorni, a differenza dei sette round precedenti, sembra finalmente presentare, se non tutti, almeno alcuni dei principali presupposti per dare inizio a un punto di svolta. Lo ha notato lo stesso De Mistura durante il suo briefing, collegato in videoconferenza da Ginevra, tenuto al Consiglio di Sicurezza ONU. Un briefing da cui sono trapelate parole di speranza per la sorte di un Paese da 6 anni in balia di una guerra che, da civile che era agli arbori, si è tramutata in un conflitto per procura tra le principali potenze dell’area e, insieme, nel principale terreno di scontro con i terroristi di Daesh.
Ma ora che il sedicente Stato Islamico è stato spazzato via non solo da Raqqa, simbolica capitale del Califfato nero, ma, più di recente, anche da Abu Kamal, nella provincia di Deir Ezzor, l’attenzione della comunità internazionale può finalmente concentrarsi sul processo politico: o, almeno, è questo che al Palazzo di Vetro si augurano. Un processo certamente accidentato, vista la portata degli interessi contrapposti in gioco, e dato che le due eterne rivali, Washington da un lato e Mosca dall’altro, restano ancora divise su questioni fondamentali. Lo si è percepito icasticamente dalla battaglia di veti andata in scena nelle scorse settimane proprio al Consiglio di Sicurezza, impegnato a discutere del rinnovo del Joint Investigative Mechanism (JIM) sull’annosa questione del presunto utilizzo di armi chimiche da parte delle forze governative di Bashar al-Assad.
Tensioni che, tuttavia, alla vigilia delle intense giornate di Ginevra, sembrano aver lasciato il posto a un’attesa fiduciosa, condivisa da tutti gli Stati membri. Un’attesa silenziosa, potremmo dire, visto che né Stati Uniti (assente l’ambasciatrice Nikki Halley) né Russia, in altre occasioni molto eloquenti sulla crisi siriana, hanno scelto di intervenire al termine della relazione dell’Inviato Speciale. Quasi nel tentativo di lasciare che, a parlare, fosse l’incontro di inizio mese tra Vladimir Putin e Donald Trump in Vietnam, durante il summit APEC di Danang, conclusosi con un joint statement risoluto nel dichiarare la non percorribilità della strada della “soluzione militare” per lo scioglimento della crisi. Ma questa non è stata l’unica conversazione recente tra i due Presidenti sulla questione. Dopo che, la scorsa settimana, Putin ha ospitato Assad nella sua lussuosa residenza a Sochi a pochi giorni da un nuovo meeting con i presidenti di Iran e Turchia – le potenze in prima linea nei negoziati di Astana, promossi da Mosca –, il capo del Cremlino si è nuovamente confrontato con l’inquilino della Casa Bianca in una conversazione telefonica. Conversazione che avrebbe evidenziato ancora una volta una sostanziale comunanza di intenti nel continuare il processo negoziale, e che Politico ha sarcasticamente parafrasato così: “Trump cede la pianificazione post-bellica a Putin”. Lasciando ben intendere, senza troppi giri di parole, quale potenza, tra Usa e Russia, l’abbia infine “spuntata” nel sanguinosissimo braccio di ferro siriano.
Ad ogni modo, al di là delle complicate relazioni tra Mosca e Washington, da rilevare sono certamente i progressi che sembrano registrarsi nel processo politico promosso dalla comunità internazionale. Certo: le criticità persistono: l’Inviato Speciale ha in effetti espresso preoccupazione per l’escalation di violenza e il mancato accesso umanitario nell’enclave ribelle dell’Est di Ghouta. Nonostante ciò, ha osservato De Mistura, siamo giunti al “momento della verità”, in vista del quale l’Inviato di Guterres in Siria ha delineato cinque priorità: la necessità che il Governo siriano, che ha nelle scorse ore posticipato di un giorno il suo arrivo a Ginevra, sia disponibile a negoziare; l’importanza di un fronte unitario e con un obiettivo politico comune nell’opposizione; un’ampia legittimazione del processo politico di Ginevra; il focus sul processo costituente e sull’indizione di nuove elezioni; e l’imprescindibile aderenza di ogni altra iniziativa diplomatica (compresa, sembra leggersi tra le righe, quella “parallela” di Astana patrocinata dalla Russia), alla roadmap delineata dalla risoluzione approvata nel 2015 dal Consiglio di Sicurezza.
E se in merito al ritardo annunciato dal Governo di Aleppo De Mistura si è augurato una sua partecipazione pronta e aperta alla collaborazione – ricordando che Assad, nel meeting di Sochi con Putin, ha promesso di non “guardare indietro” e di essere pronto a negoziare con tutti –, quanto all’opposizione ha ricordato gli sforzi, concentrati nell’intensa tre giorni di Riad della scorsa settimana, a trovare una sintesi delle istanze politiche e civili del variopinto “mosaico” siriano. A Riad, la commissione dell’opposizione per i negoziati ha peraltro eletto il proprio nuovo rappresentante Yahya al-Aridi, in una mossa che parte della stampa internazionale ha letto come “conciliante” nei confronti degli avversari governativi. In realtà, la posizione dell’opposizione non sembra cambiata: Assad deve lasciare il potere prima dell’inizio del processo di transizione politica basato su un qualunque accordo di pace.
Dal canto suo, la scorsa settimana, un ex consigliere di Assad ha dichiarato che i negoziati potranno avere successo solo se i ribelli si decideranno a deporre le armi. Ma i gruppi armati di opposizione controllano ancora un importante passaggio a Nord-Ovest della Siria, vicino alla Turchia, e un’enclave nel Sud-Ovest vicino al confine con Israele e la Giordania, oltre ad altre tasche territoriali intorno a Damasco e Homs. Difficile, insomma, pensare che i combattimenti si fermeranno finché Assad non avrà terminato la sua opera di riconquista di ogni fazzoletto di terra siriano. La speranza, semmai, è che il processo politico di Ginevra – con al centro il nuovo processo costituente e l’indizione di libere elezioni -, nonché i percorsi parallelamente patrocinati dalla Russia, dopo 6 anni di tentativi andati a vuoto, possano finalmente decollare. Se lo è augurato anche il Rappresentante Permanente di Roma all’ONU Sebastiano Cardi, che, allo stakeout seguito alle consultazioni (dove non sono state concesse domande alla stampa), ha ribadito il sostegno del Consiglio di Sicurezza all’opera dell’Inviato del Segretario Generale e la speranza che tutte le parti che interverranno nei negoziati collaboreranno fattivamente alla risoluzione della crisi. Una crisi, o, per meglio dire, una guerra che ha ucciso, secondo le stime dell’ONU, 400mila siriani e costretto 11 milioni di persone, circa la metà della popolazione, a lasciare le proprie case.