Ci è voluto almeno un anno perché i riflettori si accendessero sul dramma dei Rohingya. 365 giorni in cui la crisi, cominciata – o, per meglio dire, ricominciata – nell’ottobre 2016 si è trasformata in quella che l’ONU ha definito l’emergenza umanitaria più grave dell’ultimo anno (La Voce invece già ne riportava molto prima qui). Perché quel fiume umano in fuga attraverso l’estuario del Naf, che segna la frontiera tra Birmania e Bangladesh, prova a salvarsi da una persecuzione ufficialmente negata dal Governo birmano, ma ormai innegabile di fronte al tribunale della storia. Le immagini satellitari, del resto, non mentono quando mostrano i villaggi dove i Rohingya abitavano devastati dalle fiamme e ridotti in cenere. E poi ci sono le testimonianze dirette, di quella marea umana che fugge e cerca un riparo nel vicino Bangladesh, persone a cui i militari birmani hanno tolto tutto: la casa, i parenti, la patria, se non ancora la vita.
Patria. Qual è la patria dei Rohingya? A chiedere a loro, risponderebbero senza esitazione alcuna la Birmania, o, più precisamente, lo stato birmano del Rakhine, dove la quasi totalità di essi è nata e cresciuta. Per l’esercito, però, i Rohingya, che di religione sono musulmani, non sono autoctoni, e non hanno diritto a stare nella terra dei loro padri. Si sospetta che dietro alla motivazione etnico-religiosa se ne nasconda una più prettamente economica: il Governo birmano ha infatti reso disponibile, nell’Ovest del Paese, più di un milione di ettari di terra utilizzabili per progetti di sviluppo agricolo. Una vera e propria operazione di landgrabbing, insomma, che ha espropriato della propria terra tutti coloro non trovati con le carte in regola per possederla. Tra gli sfortunati, il popolo rohingya. Dopo il primo grande esodo degli anni Novanta, l’emergenza è ricominciata il 9 ottobre 2016, dopo l’assalto a tre posti di frontiera dove sono stati uccisi nove poliziotti birmani, assalto di cui sono stati accusati gli indipendentisti rohingya. Da lì, si è scatenata la più feroce e sanguinaria repressione. Repressione che per un anno non ha avuto testimoni, tranne le sue vittime dirette, né ha attirato i riflettori dei media, nonostante la portata di una crisi che, ad oggi, ha causato la fuga di centinaia di migliaia di persona.

Ma anche secondo le Nazioni Unite l’emergenza attuale, nonostante il prolungato silenzio dei mezzi di informazione e della comunità internazionale, ha radici più lontane nel tempo e diffuse nello spazio. “La crisi dello stato del Rakhine non soltanto ha avuto un’evoluzione di decenni, ma per qualche tempo ha anche superato i confini del Myanmar”, ha spiegato Yanghee Lee, la referente ONU sui Diritti umani nel Paese. “Attecchisce da decenni nelle menti del popolo del Myanmar l’idea che i Rohingya non siano indigeni”, e pertanto non possano godere dei diritti che essi rivendicano, ha sottolineato.
Non solo. Lee ha anche aggiunto che, benché la situazione dei Rohingya al momento rimanga al centro delle sue preoccupazioni, esistono nel Paese diverse altre criticità dal punto di vista dei diritti umani, prima fra tutte l’intolleranza registrata nei confronti di minoranze religiose quali quelle cristiane e musulmane. Una situazione notevolmente aggravata dalle confische di terra di cui ampie fette della popolazione sono state vittime, e dal limitato accesso consentito alle organizzazioni umanitarie, risultato dei frequenti scontri tra l’esercito e gruppi etnici armati. Dalla Referente è dunque giunta una piccata critica al Governo birmano: “In passato ho elogiato lo sviluppo del Myanmar, e l’ampliamento dello spazio democratico. Tuttavia, oggi mi pare che la legislazione nazionale abbia finito per tradursi in una criminalizzazione dell’espressione legittima”.
Non è la prima volta che le Nazioni Unite si esprimono sull’argomento, ma è soprattutto dallo scorso settembre che al Palazzo di Vetro serpeggia una particolare preoccupazione. Non a caso, proprio il mese scorso 12 Nobel e 15 persone tra attivisti, politici e filantropi hanno inviato una lettera al Consiglio di Sicurezza con l’accorato appello per un’azione tempestiva, prima che sia troppo tardi. D’altra parte, già a settembre l’alto commissario per i Diritti Umani Zeid Ràad al Hussein aveva parlato di “pulizia etnica”, profetizzando un rapido superamento della triste soglia dei mille morti. Poco prima, il Myanmar aveva bloccato le forniture di acqua, cibo e medicine provenienti da organizzazioni ONU e dirette a migliaia di civili rohingya. Così, dal Palazzo di Vetro è stato chiesto “accesso illimitato” nel Paese alla leader birmana e già Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. La quale, dopo un lungo e criticato silenzio – vista soprattutto l’onorificenza della quale è stata insignita –, ha infine aperto allo scrutinio internazionale, provando però a ridimensionare la portata della tragedia e affermando che la maggior parte dei villaggi musulmani non ha subito violenze. Il Myanmar ha anche ufficialmente rigettato le accuse di “pulizia etnica” davanti al Consiglio di Sicurezza.
Una vicenda che, oltre a evidenziare tutti i limiti dell’informazione contemporanea – spesso ossessionata più dai click che dalla missione deontologica di raccontare le grandi tragedie dell’umanità, quando queste ultime sono “lontane” da noi –, sembra denunciare anche un grande paradosso della nostra epoca. Mentre infatti nella benestante Europa si sventola a periodi alterni lo spettro dell'”invasione” dei migranti, operando un programmatico rovesciamento lessicale che paragona la fuga di disperati a un’azione bellica pronta a sovvertire l’ordine europeo, il Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, fa quello che può per accogliere migliaia di profughi, e viene lasciato impietosamente solo dalla comunità internazionale a gestire l’emergenza.