In maggio, Asmara ha celebrato con solennità e sfarzo il quarto di secolo di indipendenza. A parte veterani e forze armate, non hanno festeggiato in molti. L’Eritrea, dopo l’iniziale fase di grande speranza, ha tradito ogni aspettativa positiva, imboccando la strada senza ritorno della dittatura fondata sulla punta delle baionette. La conferma viene dalle quasi cinquecento pagine del recentissimo Report of the Commission of Inquiry on Human Rights in Eritrea, edito dall’apposita commissione d’inchiesta ONU. Contiene raccapriccianti deposizioni su esecuzioni extragiudiziarie, schiavitù sessuale, lavoro forzato, espropriazioni illegali. Tra le accuse che inchiodano il regime di Isaias Afwerki, quelle riguardanti i “crimini contro l’umanità nei confronti della popolazione”. Il rapporto riassume: “Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura”, leggasi arresti, tortura, esecuzioni sommarie, schiavitù.
Quella del piccolo paese del corno d’Africa è, purtroppo, una vicenda che va ad allungare la lista dei paesi africani di nuova indipendenza, nati tra speranze di redenzione e finiti nel baratro delle dittature ladre e sanguinarie. Il tutto, in questo caso, aggravato da una sorta di amnesia internazionale della quale porta responsabilità tutte speciali l’Italia, il paese maggiormente legato dalla storia al piccolo territorio africano. La sua costa soddisfece le prime ambizioni coloniali della giovane nazione italiana, quando Roma creò la Colonia Eritrea, il 5 gennaio 1890. Il nome stesso, che sta per “Terra sul mar Rosso”, dal greco erythròs rosso, fu attribuito al territorio dall’allora capo di governo Francesco Crispi, su suggerimento dell’amico scrittore Carlo Dossi. Esattamente centoventi anni fa, il 26 ottobre 1896, la pace di Addis Abeba riconobbe all’Italia, con il protettorato sulla costa somala, la sovranità sulla colonia Eritrea con confine Mareb. Questo, dopo l’umiliante disastro del 1 marzo ad Adua, inflitto dall’imperatore etiope Menelik, già nostro alleato, vincitore sulle truppe del generale Oreste Barattieri integrate dagli ascari eritrei: sulle circa cinquemila nostre vittime, quattromila furono ascari.
Si noti che la memoria del legame storico con l’Italia è tuttora viva tra gli eritrei, in termini abbastanza positivi. Alcuni quartieri di Asmara rimandano in modo sorprendente ai canoni architettonici del nostro modernismo versione anni venti e trenta del Novecento (si vedano il cinema Impero e il liceo Marconi), i nomi di alcune strade della capitale richiamano la nostra presenza. E’ ancora lì la ferrovia costruita dalle nostre maestranze tra Asmara e il porto di Massaua (“gli inglesi qui intorno hanno smontato tutto quello che avevano costruito, e pezzo per pezzo l’hanno caricato sulle loro navi. Voi ci avete lasciato ogni cosa che avete costruito”, mi disse ad Asmara l’uomo che mi fece da autista per qualche giorno. Si chiamava Abramo e aveva giocato con una nostra nazionale di calcio, della quale ricordava ogni dettaglio, così come ricordava le epiche corse di bici degli epici decenni dei nostri campioni).
E’ una storia che spiega anche come molti esuli politici ed economici eritrei vivano oggi nel nostro paese, e da qui lancino continui appelli per l’uscita dalla dittatura. Spiega anche perché, subito dopo l’indipendenza, l’Italia fosse tra i paesi più attivi nel sostenere Isaias (così, con semplicità, ama da sempre farsi chiamare dagli interlocutori non ufficiali, Afwerki) in quello che sembrava lo sforzo sincero di dare un futuro dignitoso alla sua giovane nazione. All’epoca, esaurito il lungo conflitto che dal 1961 al 1991 aveva opposto le forze indipendentiste eritree alla dominazione etiopica, stabilizzato il paese, Isaias venne in Italia insieme a Meles Zenawi, a capo della nuova Etiopia sorta dalle ceneri del regime filo-sovietico. Per ragioni professionali ebbi modo, con altri colleghi, di familiarizzare con ambedue. Sempre insieme, ex combattenti per una causa in fondo comune, apparivano fratelli gemelli di una splendida storia politica e umana. Ricordo benissimo che, ad un certo punto delle nostre conversazioni piene di idealismo e di progetti di cooperazione, me ne uscii con un interrogativo beffardo: “Voi due non farete la fine dei troppi capi di stato e di governo africani che, esaurita la spinta ideale iniziale, si sono poi votati a guerre e rapine contro i loro popoli?”. Ricordo il sorriso complice e candido della risposta amichevole, e l’invito a ritrovarci anni dopo per la verifica. Avrei fatto la verifica qualche mese dopo, quando le cose ancora erano tranquille. Presto, come noto, i due compari sarebbero finiti ai ferri corti, e a farsi guerra dal 1998 al 2000. E guerra è ancora oggi, anche dopo la morte nel frattempo intervenuta, nel 2012, di Meles Zenawi. Lo scorso 12 giugno scontri di frontiera hanno causato la morte di numerosi militari.

Appare evidente l’incapacità di Afwerki di transitare dallo stato di guerra, nel quale è nato come leader anche politico, a quello civile, fatto di leggi da rispettare, regime multipartitico, possibilità di essere sostituito. E’ asserragliato nella torre dei suoi fedelissimi, garantito dalla corte dei magnifici soldati del Fronte di liberazione, che con lui hanno fatto l’indipendenza e che poi, a compensazione, hanno rivendicato privilegi e poteri invece di mettersi al servizio del paese che avevano fondato. Si trasformarono in Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Fpdj) nel 1994, diventando la colonna politica (armata) sulla quale il regime avrebbe prosperato, garantendosi immunità e immortalità. Avrebbero scoraggiato gli investimenti interni ed esteri, avrebbero allontanato o costretto ad andarsene imprenditori che li avevano sostenuti e che stavano investendo per il futuro. Ne hanno rilevato proprietà e talvolta le donne alle quali hanno impedito di raggiungere all’estero gli uomini in fuga. Hanno così cacciato se stessi e il paese in un imbuto senza uscita, un isolamento da pagare in termini anche di sviluppo culturale ed economico: la popolazione ha oggi un reddito annuale intorno ai 500 dollari, che schizza a più di mille solo se considerato in PPP, Purchasing Power Parity. Da qui la cultura dell’accerchiamento, del complotto e del sabotaggio economico internazionali, che Afwerki innesta nella popolazione, linea dominante della sua attuale propaganda.
L’Eritrea, 117.600 kmq ovvero 1/3 dell’Italia, è piccola e poco popolata. Esclusi gli emigrati, le cui fila tendono ad ingrossarsi data la situazione interna (secondo l’Onu sono cinquemila al mese i fuggitivi, via Libia, verso l’Europa; tra i richiedenti asilo in arrivo dal Mediterraneo, gli eritrei vengono subito dopo siriani, afghani, iracheni), restano poco più di cinque milioni di persone. Buona parte di loro può essere chiamata alle armi in qualunque momento, per ferme illimitate. La paranoia di regime ha infatti aperto non solo il fronte interno contro il popolo, ma quello esterno contro il vicino etiope anche nel tentativo di motivare all’unità nazionale una popolazione il cui unico desiderio è sfuggire alla morsa.
Davvero in pochi possono credere alla fanfaluca di un mondo intero che si sta affannando a “creare povertà e carestia” al fine di “provocare la situazione di crisi nel paese”, come racconta Isaias, mentre in moltissimi ritengono lui stesso responsabile del baratro nel quale si ritrovano. Per questo, di fronte allo stillicidio delle fughe, Afwerki ha elaborato la teoria secondo la quale gli stessi eritrei finiscano per essere complici, magari involontari, del tentativo di “disperdere e indebolire il capitale umano nazionale” innescato dalla politica occidentale di offerta di asilo ai fuggitivi (v. sito ufficiale del ministero dell’Informazione). Afwerki attacca i “vari sotterfugi” per “paralizzare e distruggere le attività minerarie, scoraggiare gli investimenti esteri e l’assistenza allo sviluppo”.
Occorre un’iniziativa europea, che faccio perno su Roma e i suoi legami storici con la ex colonia. Anche l’Unione Africana dovrebbe mobilitarsi, prima che sia troppo tardi.