Lunedì, ospiti del Kuwait, si siederanno al tavolo della pacificazione le parti che, da più di un anno, in Yemen sono in guerra per il potere: da un lato il governo del deposto (a suo tempo eletto) presidente ʿAbd Rabbih Manṣūr Hādī, dall’altro i ribelli houthi e apparentati che lo hanno allontanato il 22 gennaio 2015. Al tavolo due convitati di pietra, senza il consenso dei quali non si sarebbe potuto dare inizio né alla conferenza ONU per la pace né ai paralleli aiuti umanitari ad una popolazione che ha pagato il conflitto con almeno 6.200 uccisi e 2,4 milioni di sfollati: Arabia Saudita e Iran.
A riprova il fatto che l’Arabia Saudita, leader della coalizione di paesi del golfo impegnata contro i ribelli, stia rispettando la tregua partita lunedì scorso, e che l’Iran, secondo Afp sollecitata ad hoc da John Kerry, si sia dichiarato pronto a collaborare. E’ in questo clima che da Istanbul, dove si riuniva per il suo tredicesimo vertice, chiuso venerdì, l’Organizzazione della cooperazione islamica non ha mancato di ringraziare, con il Kuwait, le Nazioni Unite, per l’impegno umanitario e il contributo che stanno dando alla pacificazione in Yemen.
Fatta la premessa, c’è da chiedersi se e come si potrà arrivare a chiudere un conflitto che ha radici nel terreno di confronto/scontro, antico quanto l’islam, tra le due comunità musulmane più diffuse nel mondo, la sunnita e la sciita, che contribuiscono in numero pressoché identico a formare la popolazione yemenita. Va bene fare affidamento sulla forza immaginifica della diplomazia e sul cinismo politico creativo del quale gli stati di cultura islamica danno da sempre prova, ma basteranno questi ingredienti a restituire un minimo di convivenza ai 26,2 milioni di yemeniti?
Obiettivo della coalizione è riportare a Sana’a il presidente deposto e rimettere in funzione le istituzioni dello stato. Ma si dà il caso che Hādī sia sunnita, e non risulti gradito ai ribelli houti fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, l’uomo che in 33 anni di dittatura (Yemen del nord e poi Yemen unito) ha accumulato secondo l’ONU sessanta miliardi di dollari. La differenza di posizione ha generato la guerra civile e trascinato nel teatro yemenita le potenze regionali, Arabia Saudita e Iran, paesi di riferimento in termini religiosi e politici rispettivamente di sunna e scia. Perché le cose dovrebbero ora cambiare?
Lo Yemen non può certo definirsi appetibile, con poco più di 1.400 dollari di pil pro capite. Ha però forte rilevanza strategica, per ragioni geopolitiche e di sicurezza, che risultano evidenti se si guarda un istante la carta geografica. Con 528.000 kmq circa di superficie, il paese occupa la parte sottostante l’Arabia Saudita che si affaccia sul mar Rosso, dirimpetto ad Eritrea e Djibouti, ed è separato dalla Somalia dal golfo di Aden. E’ quindi sul confine saudita, all’imbocco del mar Rosso e davanti al corno d’Africa ostaggio da decenni di bande e signori della guerra. Conservare, attraverso il patto tra le due tendenze maggiori dell’islam, un minimo di stabilità a Sana’a significa togliere a qaedisti e Daesh che da tempo combattono nel paese, l’opportunità di mettere radici definitive e di ripetere quanto stanno facendo in Medio Oriente e nord Africa.
Se questo è l’obiettivo da raggiungere, la strategia da seguire nel corso della conferenza non potrà che trovarsi in linea con le esigenze indicate dal Consiglio di sicurezza nella risoluzione 2216 (2015) e in altre rilevanti risoluzioni. Bisogna soddisfare quattro esigenze: sciogliere ogni milizia di parte con la consegna allo stato di ogni arma pesante, varare misure provvisorie ed eccezionali che garantiscano sicurezza, garantire operatività e funzionamento delle istituzioni statali; far avanzare il dialogo politico su base di inclusione. In un’intervista ad Al Jazeera, il settantacinquenne presidente Hādī ha aggiunto di volere uno Yemen federale: stato con province dai confini e poteri ben delimitati, all’interno dello schema costituzionale già suggerito dall’Iniziativa del Golfo.
Resta sempre da capire cosa potrà essere offerto agli sciiti, quindi anche ai protettori iraniani, per tranquillizzarli sul futuro. Occorre richiamare che, al di là delle note posizioni che dalla successione a Maometto mettono contro sciiti e sunniti, i due gruppi coincidono nella fede monoteista e nel culto del profeta con riti e ricorrenze spesso condivisi. Potrebbe accadere in Yemen quello che già risulta in altri paesi, dove un numero importante di credenti ritiene che i contrasti tra le due componenti vadano smussati perché non più rilevanti (sciiti, a parte quanto detto sulla loro presenza in Iran e Yemen, sono maggioranza in Iraq, Bahrain e Azerbaigian, e hanno rappresentative comunità in Siria, Afghanistan, India, Kuwait, Libano, Pakistan, Qatar, Turchia, e persino in Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti). In Iraq, prima della guerra civile, era piuttosto normale la condivisione di destini comuni fra appartenenti alle due comunità, anche attraverso matrimoni tra adepti alle due varianti della medesima fede.
E però teniamoci anche la consapevolezza che in questo momento in luoghi come Siria, Libano, Irak, Pakistan e India musulmana, Afghanistan, lo scontro tra le due tendenze dell’islam resta pesante, e che a quello scontro non è estranea la vicenda Daesh né la recisa posizione turca anti-Assad. Daesh propugna una strategia che lo vuole al vertice del mondo sunnita, per poi promuovere, da quella posizione, il dominio sull’islam sciita. Erdogan, a parte ogni legittima ironia sulla sua nostalgia imperial-ottomana, vede in Assad il rappresentante di una setta sciita che ha usurpato il potere alla maggioranza sunnita. La rivalità tra la sunnita (e wahabita) Arabia Saudita e lo sciita Iran non aiuta certo a ricomporre in unità il quadro delle fratture islamiche: per questo il fatto che i due accettino di dialogare sullo Yemen, in detto contesto diventa di grande rilevanza.
Per rendersi conto di quanta variegata e complessa sia questa situazione, si guardi ai risultati dell’indagine sui rapporti tra le due tendenze religiose, effettuata da Pew Research Center in trentanove paesi islamici, tra il 2011 e il 2012. Molti intervistati in molti paesi hanno detto di non provare nessun senso di identificazione né con l’una né con l’altra versione dell’islam: così per il 74% dei kazaki e il 56% degli indonesiani. Però in Iraq solo il 5% degli intervistati rispondeva di sentirsi musulmano e basta. In Iraq, teatro sensibile anche per il futuro yemenita, il 14% dei sunniti riteneva gli sciiti non veri musulmani, quando rispetto ai sunniti solo l’1% degli sciiti esprimeva una posizione del genere. In altri paesi a maggioranza sunnita il rigetto degli sciiti andava su punte anche più alte: in Egitto era il 53% dei sunniti a ritenere gli sciiti non veri musulmani.
Dal che si deriva che agli sciiti yemeniti può convenire acquisire, se vi fosse l’auspicata stabilizzazione garantita dall’ONU e dalle potenze regionali, un quadro di relazioni intracomunitarie di nuovo pacificato, che eviti il rischio del fondamentalismo islamista e ben altri conflitti interni.
L’inviato speciale per lo Yemen del Segretario Generale dell’ONU, il mauritano Ismail Ould Cheikh Ahmed, si dice certo che la staffetta degli esperti ONU che sta catechizzando le delegazioni per l’incontro kuwaitiano, stia facendo un buon lavoro e garantisce che la “Conferenza per il dialogo nazionale” partirà con il piede giusto. Cita, a questo proposito, quanto è stato già avviato sul piano umanitario tra le parti coinvolte nella guerra civile, anche con il rilascio dei rispettivi prigionieri.
Saremmo ancora più tranquilli sul destino di Yemen e regione vicina, se sapessimo che in quel paese il nuovo governo deciderà iniziative come quelle che da qualche tempo assume il governo libanese per riportare le comunità fuori dalle beghe del fondamentalismo e radicalismo religioso. Sei anni fa, Beirut ha stabilito che il giorno dell’Annunciazione a Maria dell’arcangelo Gabriele, fosse dichiarata festa nazionale comune cristiano-musulmana. Dieci giorni fa, in omaggio a quella decisione, il collegio di Notre Dame de Jamhour ha ospitato la cerimonia interreligiosa, dedicata quest’anno alle disabilità come fonte di diversità e bellezza. Il mufti Saida Salim Soussa ha sottolineato che incontri del genere affermano i valori della moderazione e del rifiuto delle violenze.