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November 19, 2015
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Non è terrorismo, ma una guerra di religione e mediterranea, cioè tutta nostra

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 4 mins read

“Un altro…. gli disse: ‘Signore, permetti che prima dia sepoltura a mio padre’.  Gesù rispose: ‘Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. E’ noto che si tratta di uno dei passi più complessi del Vangelo, più capaci di stordire, di recare inquietudine e smarrimento. Parole rapide, decise, così dure da parere strane, persino. In genere si spiega che in Cristo tanto vigore non è nuovo, specie quando tende al rinnovamento della Legge, allo scuotimento delle sue incrostazioni ritualistiche, al ristabilimento del suo essere servizio alla Salvezza e non serva di un sacerdozio pietrificato. I vivi lo seguono, i morti indugiano. Può bastare. E assumiamo questo abbrivio in una veste più immediatamente terrena, e più semplice.

Non c’è altro modo di pensare ai morti di Parigi che seppellirli. Ma seppellirli pensando alla vita, e non ad una morte che si compiace di sè. Un certo compiacimento, in parte anche involontario, viene negando ogni ragione a quei morti. Non una buona ragione, ma una qualsiasi ragione. A sentire l’opinione prevalente sarebbero morti per fatalità, per caso: per l’imperscrutabile follia di alcuni. Il termine usato in verità è terrorismo. In sè, il terrorismo, non sarebbe necessariamente e unicamente sostanziato di insania. 

Solo che per non essere considerato unicamente un fenomeno psichiatrico, gli si dovrebbe riconoscere una meta, una sua propria ragion d’essere. Una certa organizzazione, il reclutamento e l’adesione spontanea di decine, e anzi di centinaia di persone, il possesso di arsenali, buone capacità tecnico-balistiche, tecnologiche e comunicative, disponibilità finanziarie e logistiche, da sole potrebbero sostenere un fenomeno effimero, legato ad uno scenario statico, che nasce e muore con chi, di quel fenomeno, assume la leadership e la simbologia prepotente e sterile.

E invece, anche questo è noto, nonostante la ricomparsa del conflitto religioso sia un fatto compiuto, almeno dalle Torri Gemelle in poi, terrorismo è parola inamovibile. Cominciò George W. Bush, e tutti dietro. Terrorismo, guerra al Terrore. Il conflitto religioso, invece, ha una sua ragion d’essere, e non è effimero, si evolve, cresce, muta di consistenza, si dà mete riconoscibili. 

Un giornalista che non rilancia i lanci d’agenzia, Domenico Quirico, forte della sua esperienza di persona sequestrata per cinque mesi in Siria (dall’aprile all’ottobre 2013) ha chiarito proprio questo: Al Qaida ha fatto da incubatrice, ma i fermenti si sviluppano; Bin Laden stava nelle caverne afgane (forse), ma l’Isis ha una consistenza statuale, controlla un territorio vasto come la Francia, dove arriva avvia persino una sorta di suo welfare, riapre i forni e le scuole, obbliga i dipendenti pubblici a tornare al lavoro. Non è di passaggio. E, certo, uccide e decapita. Ma fingere che lo Stato islamico non esista, che l’Isis non si consideri compiutamente, anzi, perfettamente, musulmano, significa fare gli struzzi.  

Come se disconoscere la natura del fenomeno, la sua diffusione, implicasse misconoscimento della sua complessità, dello sfondo “normale” e dell’escrescenza “anormale”. Ma si capisce che l’Islam non è una religione peggiore delle altre, che non beve sangue dove le altre innalzano gigli.

Io considero l’essere nato italiano un grande privilegio. E non starò qui a fare l’elenco, peraltro devoto e giusto, delle grandezze, negli uomini nelle opere e nel pensiero, di cui siamo e siamo stati capaci; e fra queste grandezze c’è, senz’altro, quella di essere il luogo dove si è visto e vissuto tutto, dicasi tutto, quello che di rilevante è esistito in materia di religione, di politica e di religione legata alla politica.

In nome di Cristo si sono mosse guerre, verso l’Oriente e in Europa; lo spettro delle guerre di religione, che è locuzione intracristiana (cattolici contro protestanti, e viceversa), ad un certo punto indusse il povero Hobbes ad inventarsi il Leviatano, Potere Unico e accentrato che almeno sedasse la ferocia e le stragi perpetrate all’ombra del crocifisso. Eppure, se leggessi che la religione cristiana (e io sono, si parva licet, con Mosè Maimonide, un perplesso) recava allora, e reca sempre  in sè il germe della violenza, perchè nella Bìbbia si trova scritto questo e quello, mi sentirei di dare dell’imbecille all’improvvido esegeta. 

Perciò, ammettere che esiste un conflitto religioso, tra noi e un’avanguardia che tende ad imporsi sulla multiforme realtà islamica, non solo non è irriguardoso verso il miliardo e mezzo di musulmani, e nemmeno verso le vittime, ultime e penultime, di questa guerra di religione, ma appare l’unica via per tentare di venirne a capo. Impauriti per una guerra con un volto, non terrorizzati da una violenza misteriosa e inafferrabile. E mestamente chini sulle ragioni dei morti, e non alacremente intesi a fissarne una comoda insensatezza.  

Solo che riconoscere una guerra di religione, e un’organizzazione statale che la vuole combattere, significa riconoscere uno scenario classico: con un fronte, sunniti contro sciiti (sì, è una semplificazione, persino la moglie di Assad è sunnita, ma il Movimento islamico si avvale di queste semplificazioni, e va a mille), schieramenti che uccidono. Lì e qui. E pensare, e agire, conseguentemente. Discorso pubblico, unità, mezzi, scopo, tempi. Costi.  

Qualcuno sostiene che il conflitto sarebbe interno ai musulmani, le incursioni in Occidente solo variazioni sul tema, volte a scacciare gli infedeli dal mediorente, per meglio dedicarsi a risolvere i conti nella Umma liberi da fastidiosi spettatori (da ultimo, lo sostiene, fra gli altri, Limes). E’ una tesi singolare, che sembra deliberatamente ignorare le dinamiche degli ultimi quindici secoli. E’ la matrice di ogni esorcismo nichilistico, di ogni minimalismo libresco. Del voler essere solo morti che seppelliscono altri morti. 

Il Mediterraneo, da Maometto in poi, è un condominio. Niente è solo per “noi”, o solo per “loro”: è tutto nostro; anzi, nostrum.            

 

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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