Per chi non ha avuto la fortuna di visitare Singapore, il Gran premio di domenica scorsa, culminato con il ritorno alla vittoria della Ferrari, è stato occasione per gettare uno sguardo sulla realtà della città stato equatoriale. Le riprese dall’elicottero ne hanno evidenziato lo scintillante sviluppo, le architetture avveniristiche, le realizzazioni che tecnologia e studio con l’etica del lavoro e della famiglia, gli affermati valori asiatici della regione, vi hanno prodotto. Peraltro la gara ha coinciso con le celebrazioni per il cinquantenario dell’accesso all’indipendenza.
L’isola, chiamata inizialmente Tamasek, nel XIV secolo ad opera del conquistatore, il principe di Sriwijava, Parameswara, assume il nome di Singapura, dove Singa sta per leone, e Pura per città. Nel 1819 è presa da sir Thomas Stamford Raffles, che si sta adoperando per tamponare le perdite che l’impero britannico subisce in Oriente ad opera degli olandesi e dei loro prodotti “coloniali”. L’impronta di Raffles è tuttora viva a Singapore, nei saloni di hotel d’epoca, nei nomi di edifici e strade. Passano pochi anni e, nel 1826, Singapore ed isole viciniori, con Penang e Malacca, assume la qualifica di Straits Settlements “Colonie degli stretti”, amministrativamente controllati dalla Compagnia delle Indie Orientali, longa manus degli interessi commerciali della Union Jack. Di lì, come ricorda l’amico Truzzi, già citato su queste colonne, transiteranno, ingrassando la pancia di Albione, “san te, san caucciù, san caffè, santo stagno, santo olio di cocco, san chiodo di garofano, san petrolio, tanti altri santi e non per ultimo san pepe”.
La Singapore che conosciamo ha i primi vagiti nel 1959, con la carta costituzionale e la nomina a primo ministro di Lee Kuan Yew, il padre della patria che controllerà la città stato per quattro decenni, facendola crescere a sua immagine, con un autoritarismo fermo anche se mai spietato. L’indipendenza, dopo punte di aspro conflitto con la Malesia, arriverà il 9 agosto 1965.
L’odierna Singapore ha sempre meno a che spartire con i racconti di Kipling e le fantasiose ambientazioni di Salgari, eppure se ci si infila nei vicoli della città vecchia multietnica e multireligiosa, si respirano odori e sapori dell’epoca che fu. La città, tenuta a specchio, grazie anche ai balzelli che gli automobilisti pagano per l’antinquinamento e alle multe salatissime per chi viola le maniacali regole di igiene e pulizia imposte da Lee e mantenute dagli eredi (per dire: il chewing gum è proibito), si fa apprezzare per i livelli di efficienza, produttività, bellezza architettonica, correttezza formale nei rapporti professionali e di lavoro, senza eguali nel sud est asiatico.
Il clima, ovviamente, è orribile, con l’equatore a soli 152 km, ma soccorrono le tecnologie e un’organizzazione della vita civile di prim’ordine. La democrazia, nonostante il paternalismo autoritario di Lee sia un ricordo e Singapore con Hong Kong figuri al primo posto nella regione per rispetto dei diritti politici, incontra ancora limiti: il concetto occidentale di libertà non sempre, da quelle parti, viene condiviso e soprattutto praticato. Con 5 milioni e mezzo di abitanti e poco più di 718 km, molti sottratti all’oceano, le isole singaporeane figurano al 18° posto al mondo, per indice di sviluppo umano: secondo paese per densità di popolazione dopo Monaco, danno una speranza di vita di 80 anni ai maschi e 85 alle donne, garanzie nella libertà di culto e nei rapporti interrazziali (ma non mancano preoccupazioni in materia, visto che il 42% degli abitanti è straniero). Quarto centro finanziario mondiale e residenza della più alta concentrazione globale di milionari, Singapore è riconosciuto come il primo hub mondiale e fra i primi cinque per le attività portuali.