Ero un bambino quando, accanto a mio fratello Franco, ascoltavo alla radio le cronache di Budapest ’56: l’insurrezione antisovietica, la repressione del patto di Varsavia, il fiume dei profughi e fuorusciti. Ero un giovane studente quando guardavo in televisione i praghesi invasi dai carri del patto di Varsavia, ancora una volta profughi e fuorusciti, anche se in numero inferiore. Uno di loro, Jiři Pelikan, sarebbe divenuto deputato nelle liste socialiste per volontà di Craxi: mi avrebbe fatto dono con dedica del suo libro, “Il fuoco di Praga”, nel quale raccontava le sofferenze sue e del suo popolo. Da uomo fatto avrei visitato più volte Ungheria e Cecoslovacchia: nel piccolo del mio lavoro avrei collaborato al “ritorno” nella famiglia euroccidentale, nonostante il costo pazzesco, in termini politici più che economici e finanziari, che ci avrebbe imposto, dopo i decenni di dittatura. Sull’Ungheria, paese, come noi, del tricolore, di passioni e grandi poeti romantici, scrissi anche un libro, nella fase di transizione, tanto era la partecipazione al rinnovato destino di quel paese.

Budapest 2015: profughi confrontati dalla polizia ungherese nei pressi della stazione (Foto di Laszlo Balogh / Reuters)
Nella maturità, assisto allo spettacolo indecoroso del rigetto ungherese dell’umana sofferenza in arrivo dai fronti di guerra, con i sequestri alla stazione di Budapest e sul treno verso Occidente; e alla marchiatura con inchiostro indelebile dei profughi in transito nella repubblica Ceca, il paese che ebbe per presidente, appena qualche stagione fa, il drammaturgo Václav Havel. Particolarmente significativo il caso ungherese, perché sessant’anni fa da lì fuoriuscì un fiume di profughi che trovarono accoglienza e fraternità in Occidente, e perché proprio il taglio del filo spinato alle sue frontiere (che il fascistoide attuale primo ministro Orban sta ripristinando) permise il passaggio in occidente dei “turisti” della Germania Orientale, avviando la liberazione degli oppressi dell’est.
Ricordiamola la Storia, quella con la s maiuscola, che sovrasta le squallide cronache di questi tristissimi giorni ungheresi. Quando i sovietici, dopo aver ammazzato ad inizio novembre 2.600 insorti, avviano le esecuzioni capitali dei “traditori del socialismo”, più di 200mila magiari prendono la via dell’esilio. Se l’Austria è ovviamente il paese di maggiore accoglienza, nessuno si tira indietro. La sola Svizzera, paese piccolo e che non passa per generoso e solidale avendo chiuso le frontiere a molti fuggiaschi durante la seconda guerra, prima della fine del ’56 ha effettuato quasi 14mila asili. Centinaia di persone attendevano ai treni, con cioccolata, pane bevande calde, sigarette, i profughi in fuga dalla repressione. Si legga Flucht in die Schweitz, libro dell’ungherese George Zabratzky, rifugiato in Svizzera, e si capirà la profonda ingiustizia del comportamento ungherese di questi giorni. La stessa Italia, povera e, se posso aggiungere, condizionata dalla vasta presenza di comunisti che, nonostante Di Vittorio e la Cgil la denunciassero, avevano sciaguratamente approvato l’invasione, fece la sua parte. L’agro pontino, il Veneto, la comunistissima area di Bologna, diedero accoglienza e sostegno: basti ricordare Cà di Landino, sulle colline bolognesi dove, con la Croce Rossa, famiglie ungheresi trovarono rifugio e assistenza.
Fortuna che i popoli si mostrano talvolta migliori di chi li governa. A Budapest, di fronte alla stazione Keleti, cittadini hanno dato cibo e medicine ai profughi. Nelle stesse ore, in un angolo estremo d’Europa, in Islanda, 12mila famiglie (4% dei 330mila abitanti) decidevano di offrire casa a siriani in fuga, in dissenso con la decisione delle autorità di Reykjavik di ospitare solo 50 rifugiati.
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