L’accordo con l’Iran potrebbe rappresentare, per le relazioni internazionali, una svolta capitale. Alcuni commentatori, forzando un po’ i toni, lo hanno paragonato al riconoscimento americano dell’URSS in 1933 e della Cina popolare nel 1972. Al di là dell’unità di misura (l’Iran non è la Russia e tanto meno la Cina), è certo che, come nel 1933 e come nel 1972, si tratta di una mossa di balance of power destinata a sconvolgere gli equilibri geopolitici mediorientali, ma che presenta anche una valenza globale.
Gli Stati Uniti sono riusciti ad ottenere un risultato a cui puntavano fin dal 1979. Fino a quella data, infatti, l’Iran era stato la più importante delle loro “gambe” mediorientali, assieme a Israele e all’Arabia Saudita (con la Turchia come frontiera settentrionale). Malgrado il carattere decisamente anti-americano della rivoluzione degli ayatollah, i responsabili della politica estera di Washington tentarono di mantenere buoni rapporti con il nuovo regime, fino al giorno in cui la fazione khomeinista scatenò l’irreparabile crisi sequestrando un gruppo di impiegati dell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran.
Da allora, Washington non ha rinunciato a giocare nessuna carta pur di ristabilire il contatto con Teheran. Dal tentativo di far cadere il regime degli ayatollah – al punto di sostenere Saddam Hussein nella prima fase della guerra Irak-Iran – agli accordi puntuali dell’epoca Reagan (caso Iran-Contra), a cui gli ayatollah avevano “restituito” gli ostaggi dell’ambasciata il giorno stesso del suo ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1981.
Il risultato più tangibile delle guerre del 1991, del 2001 e del 2003 è stato il rafforzamento di Teheran. In particolare le ultime due. La guerra del 2001 non è servita a catturare i capi di al Qaida, ma ad eliminare il regime dei talebani, un’invenzione politico-militare del Pakistan e dell’Arabia Saudita per contrastare ogni possibile influenza iraniana in Afghanistan. La guerra del 2003 non è servita a trovare le inesistenti armi di distruzioni di massa, ma ad eliminare la dittatura sunnita di Saddam Hussein e permettere alla maggioranza sciita di prendere (e monopolizzare) il potere in Irak.
Ma perché l’Iran è così importante per gli Stati Uniti? Semplicemente perché rappresenta l’unico attore “razionale” – come lo ha definito Barack Obama – della regione. “Razionale”, traduciamo, vuol dire “affidabile”, per quanto si possa parlare di “affidabilità” nelle relazioni internazionali: con una delle più lunghe tradizioni politiche della storia dell’umanità, con un forte senso della nazione, e con un forte senso dello Stato. Tutte caratteristiche che fanno drammaticamente difetto agli altri paesi della regione, privi di tradizione politica indipendente, privi di unità nazionale e privi di senso dello Stato.
In quel panorama, la Turchia e Israele rappresentano, con l’Iran, delle eccezioni; non per niente sono stati a lungo parte integrante del dispositivo regionale degli Stati Uniti. Ma la Turchia è periferica, almeno tanto europea e centrasiatica quanto mediorientale; e Israele è periferico per le sue dimensioni e per la sua storia. Inoltre, negli ultimi dieci anni, anche Israele e la Turchia si sono mostrati molto più inaffidabili di quanto Washington vorrebbe, e avrebbe bisogno.
Questo non vuol dire, ovviamente, che Washington, o Barack Obama, si fidino dell’Iran. Nei rapporti tra gli Stati, diceva de Gaulle, non ci sono amici, ci sono solo interessi. E l’Iran ha i suoi. Ma almeno sono gli interessi di uno Stato, non gli interessi di una tribù, di un clan, di una setta religiosa, di membri dissidenti della famiglia reale, di militari incontinenti pronti a sacrificare il paese per salvare i propri gioielli. E uno Stato ha dei rappresentanti, degli interlocutori con cui si può discutere.
Questo non vuol neppure dire che in Iran non vi siano frazioni opposte all’accordo, o frazioni che antepongono i loro interessi particolari all’interesse generale dello Stato. Ma questo vale anche, specularmente, per gli Stati Uniti, e in particolare tra coloro che hanno permesso all’Iran, nel 2001 e nel 2003, di diventare quel che è diventato.
Prima ancora di essere formalizzato, l’accordo con l’Iran ha messo in fibrillazione tutti coloro che ne sono stati tenuti fuori e che se ne sentono danneggiati. Israele, l’Arabia Saudita, la Siria di Assad, la Turchia, il Qatar, l’Egitto: tutti sono costretti a riposizionarsi sulla base di questo nuovo equilibrio, e tutti sono pronti a scatenare la guerra – quale che sia: in Yemen, a Gaza, in Libano, a Raqqa, contro i curdi – pur di sabotarlo. La scommessa di Obama e di Rohani consiste nel dimostrare di saper rendere il Medio Oriente meno caotico, ingovernabile e sanguinario di quanto non lo sia oggi.
Ma vi è un altro aspetto di questo accordo di cui si è parlato poco: ed è che la “pax iraniana” fortissimamente voluta da Washington è stata controfirmata dalla Russia, dalla Cina e dalla Francia, tre potenze che non si lasciano sfuggire un’occasione per fare uno sgambetto agli Stati Uniti. Di sicuro, Russia, Cina e Francia avranno ottenuto delle contropartite; ma anche in questo caso, l’esito di questa lunghissima trattativa dimostra che gli Stati Uniti, benché in declino, sono ancora in grado di imporre la propria linea al mondo.
Se sopravvive al Congresso del suo paese, Obama sarà riuscito a riscattarsi da anni di incertezze, e a lasciare la propria impronta sulla storia delle relazioni internazionali degli Stati Uniti.
Qui sotto il video della lunga conferenza stampa alla Casa Bianca di mercoledì 15 luglio, in cui il presidente Barack Obama difende l'accordo sul nucleare raggiunto con l'Iran
https://youtube.com/watch?v=bpliR-5BNjM