L’AKP, il Partito della giustizia e dello sviluppo turco, ha ottenuto il 40% dei voti nelle elezioni legislative di domenica scorsa. Nonostante l’indiscutibile successo sul piano dei numeri, sul piano politico è stata una (quasi) sconfitta.
L’AKP ha perso 2,7 milioni di voti rispetto al 2011, e soprattutto ha perso – dopo più di dieci anni di confortevoli successi – la possibilità di governare da solo il paese. Il sogno di Recep Tayipp Erdoğan, presidente turco e fondatore dell’AKP, di creare una repubblica presidenziale su misura è svanito. Come se non bastasse, l’HDP, il Partito democratico popolare, di matrice curda ma capace di federare tutti gli scontenti, è entrato in parlamento per la prima volta superando di slancio (13,1%) la soglia di sbarramento del 10%.
Lo scossone è stato perlopiù attribuito alla pretesa vocazione dittatoriale di Erdoğan. Una “vocazione” che, per taluni, sarebbe indissociabile dalla sua impronta islamica. Questa lettura presenta una mezza verità, una mezza calunnia, molte approssimazioni e un implicito elogio.
La mezza verità riguarda l’innegabile deriva autoritaria della gestione Erdoğan negli ultimi anni. Il fatto di mettere questa deriva sul conto della matrice islamica dell’AKP è la mezza calunnia: come se fosse ineluttabile che un partito di sensibilità musulmana covasse in sé i germi del dispotismo. Se così fosse, perché Erdoğan avrebbe atteso dieci anni prima di svelare le sue recondite intenzioni? Perché avrebbe atteso cinque anni dopo aver eliminato – dietro insistito suggerimento dell’Unione europea – lo storico veto dei militari sulla vita politica turca?
Le approssimazioni sono tutte figlie di questa volontà interessata di trovare una facile spiegazione al comportamento imbizzarrito di Erdoğan degli ultimi due anni. La vicenda è più complessa e merita di essere ripercorsa per sommi capi.
L’AKP è il risultato di tre fattori. 1) Lo sviluppo economico della Turchia, che ha portato a Istanbul milioni di contadini dell’Anatolia – turchi e curdi – profondamente religiosi e profondamente intenzionati a migliorare le proprie condizioni di vita. 2) La repressione militare che, sciogliendo d’autorità il precedente governo islamista di Necmettin Erbakan nel 1997, aveva privato le masse anatoliche inurbate di rappresentazione politica. 3) La fine dell’ordine internazionale bipolare e il declino relativo degli Stati Uniti, che hanno costretto la Turchia a posizionarsi autonomamente sullo scacchiere internazionale.
Quest’ultima condizione ha dato origine alla strategia politica internazionale a 360° dei governi Erdoğan, pianificata dal professor Ahmet Davutoğlu, premiato con l’incarico di ministro degli Esteri prima, e di Primo ministro dopo l’elezione di Erdoğan alla presidenza della Repubblica. Secondo quella strategia, la Turchia avrebbe dovuto sfruttare tutto il capitale geopolitico accumulato nei secoli: quello turco, verso l’Azerbaigian e l’Asia centrale turcofona; quello ottomano, verso i Balcani, il Medio Oriente e l’Africa del Nord; quello atlantico, verso gli Stati Uniti; quello europeo, verso i suoi partner successivi del Vecchio Continente, Francia, Gran Bretagna e Germania in testa. E, naturalmente, quello musulmano.
Si trattava di una strategia ambiziosa. Troppo ambiziosa per i mezzi del paese. La “profondità strategica” (secondo la formula di Davutoğlu) in una direzione è inevitabilmente entrata in collisione con la “profondità strategica” in altre direzioni. Così, Erdoğan ha dapprima rinunciato al potenziale conflitto con la Russia (e con la Cina) in Asia centrale; ha allentato i suoi storici legami con gli Stati Uniti, rifiutando il suo appoggio all’invasione dell’Irak nel 2003 e incrinando le relazioni con Israele; e si è fatto mettere alla porta dell’Unione europea. I vincoli internazionali hanno drasticamente ridotto i leggendari 360° di Davutoğlu ad una finestra essenzialmente ottomana (meno i Balcani, cioè il principale capitale geopolitico del suo glorioso passato imperiale), che la Turchia ha cercato di forzare usando il grimaldello panislamico.
I primi dieci anni di gestione Erdoğan sono stati un modello di riuscita economica: la crescita media è stata del 5,1% (da confrontare con l’1,2% dell’Unione europea) e, nel 2011, il suo debito pubblico era il 39,4% del PIL (da confrontare con il 120,1% dell’Italia, l’81,5% della Germania e il 102,94% degli Stati Uniti), appena superiore a quello della Svezia (37,4%). La Turchia ha dunque offerto alle primavere arabe l’esempio di un governo islamico vincente, capace di imporsi grazie ai suoi successi e capace di portare ricchezza alla propria popolazione. Sull’altro fronte, le primavere arabe sono state viste da Erdoğan come l’occasione per stabilire, infine, una sfera di influenza turca a partire dalla quale rilanciarsi come grande potenza.
Ma, si sa, le primavere arabe sono state sconfitte. Il colpo di Stato in Egitto, la guerra civile permanente in Libia, nello Yemen e, soprattutto, in Siria hanno grippato la macchina di Erdoğan. Con la crisi del 2013 (al pari di tutti gli altri “emergenti”: India, Brasile, Sudafrica, Russia e persino Cina), la situazione sembra essere sfuggita di mano al brillante oratore e capopopolo di Istanbul. Che ha reagito con rabbia e confusione al “tradimento” della middle class a Gezi Park nel 2013 e del suo mentore di un tempo, il controverso predicatore Fethullah Gülen. La radice della (quasi) sconfitta di domenica scorsa sta lì. Nell’incapacità di sottrarre i paraocchi ideologici e le smisurate ambizioni personali alla fredda analisi dei rapporti di forze reali.
Ma nel sottolineare con compiacimento la “sconfitta” di Erdoğan, anche coloro che credevano la Turchia irreparabilmente perduta per la causa democratica si sono lasciati sfuggire due involontari elogi: ad un sistema che sa ridimensionare le ambizioni di un capo di Stato rabbioso e confuso; e ad un capo di Stato che accetta, senza rabbia e senza confusione, il verdetto delle urne.