Chi, come me, ha avuto la fortuna di visitare Palmira, vive con raddoppiata angoscia il fatto che quel sito archeologico sia oggi in mano allo stato islamico, IS. La città, nell’antichità greco-romana e poi araba, è stata snodo imprescindibile di carovane e viaggiatori verso Babilonia, Edessa, Antiochia, Gaza. Per far fronte a questa sua funzione, si ritrovò arricchita, nei secoli prima e dopo la nascita di Gesù, di tesori d’arte e testimonianze delle culture che venivano esprimendosi dentro le sue mura. Antica quanto i primordi delle civiltà mesopotamiche e mediterranee e città biblica, Palmira ricevette la sua grande opportunità negli anni di Alessandro il Macedone. Alla precoce fine del Grande, suoi effettivi erano rimasti in zona, innestando una colonia macedone sul tessuto locale, contribuendo a rendere la città ancora più ricca e bella. Sarebbero poi arrivati i romani, da Antonio ad Augusto, sino all’eccellente pacificatore e orientalista Adriano che avrvebbe fregiato la città del titolo di Hadriana.
Palmira è per tutti la città di Zenobia, che le dona splendore ellenistico e ruolo politico di eccellenza. La città si sarebbe ritrovato, nei pochi anni del suo regno (267-272), ad essere centro propulsore di conquiste inaspettate, che all’inizio non impensierirono i romani, ma poi li irritarono perché era chiaro che la regina non agiva come “vassallo” dell’imperatore, ma puntava a un potere autonomo. Palmira, al centro di una regione fertile e composita che da Mesopotamia e Golfo spingeva sino al Mediterraneo, era per Roma strategica: ci avrebbe pensato Aureliano a riconquistarla, trascinando Zenobia in catene a Roma.
Quando il mio amico Attar, che a Palmira aveva due hotel per i turisti che arrivavano da ogni parte del mondo, fece con me i poco più di 200 km che separano Damasco dalla città seleucide, per regalarmi il viaggio tra le rovine, mi parlò quasi esclusivamente di Zenobia. Mi disse delle sue crudeltà (per prendere il trono aveva fatto uccidere marito e figliastro; per evitare di essere giustiziata da Aureliano si era finta “donna debole e manipolata” spedendo all’esecuzione i generali e i saggi che le erano stati fedeli fino alla fine) e della sua grandezza, sottolineando che al di là del nome romano che aveva ricevuto dal padre, firmava i documenti sempre col nome aramaico ed era nata siriana. Al tempo stesso Attar, siriano gentile, cosmopolita e laico, teneva a dirmi che quelle rovine non appartenevano a questo o a quel popolo, ma erano patrimonio dell’umanità o almeno di tutti i popoli che si erano succeduti in quell’incastro regionale di culture e genti. Le tracce di quelle civiltà, adesso sono nelle mani di Is. Non c’è evidentemente da stare tranquilli sul loro destino.
Narra lo storico greco Polibio che il suo allievo e console romano Scipione Emiliano, distrutta Cartagine e gettato il sale sulle rovine, fosse preso da commozione e pianto per la fine di quella grande civiltà. Non erano lacrime di coccodrillo. Polibio precisa che si trattava dello sfogo umano e filosofico del capo militare capace di inquadrare l’evento, del quale comprendeva la rilevanza storica, nella successione dei lutti e distruzioni che stati e popoli si infliggono da Caino in poi. Polibio sa, e lo scrive, che Emiliano piange su Cartagine che lui ha raso al suolo, ma ha nel cuore Troia, le altre città fenicie e greche abbattute nei secoli, e Roma destinata anch’essa a perire.
In molti dubitiamo che dinanzi alle rovine di Palmira, ci sia un Polibio che possa narrare del condottiero islamico in preda a lacrime filosofiche sulla sorte di popoli e nazioni. Le demolizioni gratuite alle quali Is ci ha abituato, effetto di fanatismo e ignoranza non di strategia guerriera, fanno pensare, al contrario, che a Palmira le profanazioni della storia e della cultura umana troveranno reiterata espressione, anche se per il momento non se ne ha notizia. Is, che ha mostrato a più riprese di saper ben gestire l’informazione, potrebbe avere interesse a una pausa nella sua perversione iconoclasta. Potrebbe aver immaginato di far funzionare una specie di “sindrome di Stoccolma” applicata al sontuoso patrimonio archeologico che tiene in ostaggio. Magari, con questa tattica, vuole metterci in condizione di gioire e ringraziare per aver risparmiato l’ostaggio, per non aver dinamitato e ridotto in polvere ciò che resta della città di Zenobia.
Guai a lasciarci influenzare dall’eventuale “grazia” che lo stato islamico concedesse alle rovine di Palmira. Quel regime antiumano va comunque abbattuto, perché è un rischio per l’intera regione di Medio Oriente e Golfo e, se ulteriormente rafforzato, un rischio anche per le nostre contrade attraverso azioni di terrorismo. Non può esserci mediazione con gente del genere. Ovvio che attaccare e distruggere Is significa ridare fiato a Bashar al-Assad, che infatti ci accusa di essere la causa della cattura di Palmira. Ma basta questo timore, a giustificare il wait and see occidentale davanti alla catena criminale di IS?