Dall’osservatorio di Riyadh, la politica internazionale risulta di facile lettura. Qui gli schemi di riferimento sono semplici e basati su pochi elementi imprescindibili. I sottomessi ad Allah formano la grande comunità dei credenti, destinata dal profeta ad espandersi nell’universo mondo, e devono obbedienza alla legge islamica, la sharia, risultato delle interpretazioni di Corano e Sunna (i sei testi, gli hadit, che fanno la consuetudine). La monarchia saudita è custode delle due “sante” moschee ospitate in Arabia, protettrice di Mecca e altri luoghi sacri dell’islam situati nel paese. Ne viene un incommensurabile ascendente politico-religioso sulla componente sunnita dell’islam. Per la stessa ragione, la monarchia si erge come primo avversario della Shia, la minoranza seguace, da 1300 anni, del genero del profeta, Shias, che ha come campione l’Iran degli ayatollah. Armata sino ai denti e con le casse gonfie di royalties petrolifere, Riyadh mette il potere politico-religioso e finanziario al servizio delle sue priorità di politica globale e regionale.
Sul piano globale, guidare l’espansione dell’islam significa sostenere e finanziare le attività ritenute utili alla causa: non ci si limita, di certo, a sorreggere scuole coraniche, campi educativi, scambi culturali, pubblicazioni e attività accademiche. Servizi occidentali hanno fatto circolare informazioni su sostegni sauditi (e del Qatar) a gruppi fondamentalisti attivi nella lotta armata contro la legalità internazionale. La posizione saudita è stata ribadita in questi giorni ai 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica: il discorso del re è andato tutto sul binario della “crescente islamofobia” e sulla necessità di contrastarla, invece di provare a confrontarsi con le ragioni che, ammesso che il fenomeno esista, ne sono alla radice. Nello stesso solco la reazione, di questi giorni, alla posizione sulla sharia espressa dalla ministro degli esteri svedese, che ha provocato una crisi diplomatica bilaterale senza precedenti.
Sul piano regionale, la leadership nell’area del Golfo è tutt’ora in gioco. Con l’Iraq fuori dalla competizione, la partita schiera di fronte, grazie alla crisi yemenita, Teheran e Riyadh. Nel giro di poche ore i Sauditi hanno messo in piedi una coalizione sunnita di tutto rispetto pronta, quando sarà necessario, a combattere anche sul terreno. Se non è la resa dei conti con gli sciiti che, complice l’Iran, dal Libano alla Siria, passando per Afghanistan, Libia, Siria, e ora Yemen, creano continue macchie di insorgenza, poco ci manca. Washington non solo approva ma si sta schierando a supporto. L’Arabia, in questo paradossalmente sulla stessa posizione dei falchi ebrei di Gerusalemme, auspica che gli sviluppi delle prossime ore possano risultare utili anche al fallimento del compromesso Obama sul nucleare iraniano che va concluso entro martedì.
Alleata degli Stati Uniti, dopo esserlo stata dell’impero britannico, l’Arabia, con il repentino quanto inaspettato coinvolgimento diretto nella crisi yemenita, è messa davanti ai rischi che l’estremismo islamista possa contagiare la sua fortezza, nonostante i vari cerchi di isolamento dalle infezioni predisposti dal regime. Basterebbe che Riyadh facesse i conti con il concetto e la cultura dello stato e delle sue leggi, quali “corpi” e “istituti” separati dalla religione, individuale o collettiva che sia. Il silenzio del Corano sui rapporti tra religione e società può, in quest’ambito, fornire al consolidato potere saudita, molto più spazio di manovra, di quanto in genere gli venga attribuito da chi guarda solo alle rigidità della sua sharia.