L’esperto di politica internazionale, J.D. Kiras, autore di Terrorismo e Globalizzazione, ha individuato tre fattori alla base della nascita del terrorismo transnazionale alla fine del 1960: la crescita del trasporto aereo commerciale, l'evoluzione dei mezzi di comunicazione, la deregolamentazione dei mercati finanziari e gli sviluppi di ampi interessi politici e ideologici tra gli estremisti. Un "nuovo" terrorismo emerso come diretta conseguenza della globalizzazione. Non a caso statistiche europee hanno confermato che nel vecchio continente il rischio di morire in un attentato terroristico interno era superiore negli anni Settanta di quanto non lo sia oggi. Ma al di là di ogni analogia sul piano morale, è il premio Nobel Paul Krugman, autore di The Economy of Fear, che riscontra una forte similitudine tra i costi connessi alla criminalità e quelli legati al terrorismo.
Quando nel 2001 gli Stati Uniti subirono il più pesante attacco terroristico della loro storia, gli effetti economici sulla sua economia furono immediati. Secondo le stime del New York Federal Bank, tra settembre ed ottobre le borse rimasero chiuse quasi per una settimana, registrando enormi perdite, mentre nei tre mesi successivi 60.000 persone persero il posto di lavoro, in particolare nel settore viaggi. Tuttavia ciò che molti studi in materia cercano di quantificare sono le ripercussioni indirette e a lungo termine degli attacchi terroristici. Perché oltre alla distruzione fisica, alla perdita di vite umane e alla creazione di un clima di sfiducia, i terroristi mirano a causare danni permanenti nelle economie che colpiscono.
L’impatto più rilevante coinvolge il settore militare e quello della sicurezza. In particolare il rafforzamento delle misure di sicurezza non solo sottrae risorse a welfare e a settori più produttivi ma incide negativamente sul movimento di merci e persone. Ad esempio, dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre del 2001, i confini degli Stati Uniti sono state temporaneamente chiusi, i camion al confine tra Canada e Stati Uniti hanno dovuto attendere fino a 20 ore per una traversata che normalmente richiede qualche minuto. All’indomani dell’attentato alla sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, a Parigi, il governo francese ha comunicato la sua intenzione di ridimensionare gli scambi commerciali con quei paesi che simpatizzano culturalmente, geograficamente o religiosamente con le organizzazioni terroristiche ritenute responsabili degli attacchi.
Per l’istituto per l’Economia e la Pace, un équipe di esperti internazionali che ogni anno elaborano l’Indice di Terrorismo Globale, il reddito globale sarebbe più elevato di almeno il 30% se il mondo vivesse in pace. Eppure gli effetti economici del terrorismo rimangono di difficile misurazione soprattutto quando la portata del fenomeno terroristico è tanto vasta come nel caso dei movimenti integralisti islamici e gli effetti sistemici riguardano intere aree. Ma come fa osservare ancora una volta Paul Krugman esplorare le conseguenze economiche del terrorismo è una sfida in particolare per quanto riguarda il costo che gli individui intendono sostenere per controllare la paura, nella misura in cui impone un cambiamento nella routine e nello stile di vita. Perché, nonostante ci sia la tendenza da parte di coloro che vivono nelle zone maggiormente colpite da attacchi terroristici ad investire meno per modificare le proprie abitudini, in generale il fattore paura si presenta come una variabile complessa e estremamente soggettiva, per cui è difficile prevedere il possibile impatto sui mercati azionari o sul consumo.
Infine a complicare la valutazione del danno economico effettivo prodotto dal terrorismo intervengono le cosiddette “iniziative di ricostruzione” con ricadute positive sulla produttività e sul processo di accumulazione dei capitali nei paesi coinvolti. Che in qualche modo dovrebbero compensare gli effetti a lungo termine sui settori tradizionalmente colpiti dagli attentati come ad esempio il turismo e il trasporto aereo.
Almeno una cosa è certa. La strage di Charlie Hebdo potrebbe fornire risposte a chi continua a sostenere che il terrorismo è ancora un disturbo periferico e che le città, che sono i principali obiettivi degli attacchi, tendono a recuperare rapidamente e in modo efficiente.