In questa stagione di venti antieuropei, pochi celebreranno il ventennale del discorso del 17 gennaio 1995 che il presidente francese François Mitterrand, consapevole che il tumore alla prostata gli lasciava poco da vivere (se ne sarebbe andato nei primi giorni del gennaio successivo), fece a Strasburgo al Parlamento europeo. Quell’anno sarebbe passato alla storia soprattutto per gli accordi di Dayton che mettevano fine al conflitto in Bosnia, e per l’assassinio del primo ministro israeliano Rabin, ma per i cittadini dell’Ue il pronunciamento del presidente francese appartiene anch’esso alla storia. Tre le ragioni: la statura politica di Mitterrand e il fatto che a prendere posizione contro il nazionalismo fosse il capo del paese più nazionalista d’Europa e l’esponente in quella fase più autorevole della sinistra europea, schieramento non sempre coerente verso il progetto federalista.
Il leader socialista era chiamato a presentare ai parlamentari il programma del semestre francese di presidenza del Consiglio. Si trattava di un atto di routine, che si ripeteva (si ripete) ad ogni turnazione semestrale tra i paesi membri. I discorsi che inaugurano i semestri hanno tradizionalmente ritmo e contenuti burocratico-amministrativi, in uno stile che ricorda le relazioni degli amministratori delegati ai consigli d’amministrazione. Ma dal fine florentin Mitterrand, la piattezza non era di casa. Vi abitava solo l’alta politica.
Il suo intervento ha un andamento colloquiale. Ragiona a braccio, fa battute che scatenano la partecipazione dell’emiciclo. Poi il discorso s’impenna, si colora di ricordi personali e generazionali che lo rendono drammatico. Nel crescendo si fa profetico ottenendo quell’autorevolezza che lo fa collocare nella raccolta dei 100 più importanti discorsi del secolo XX (v. Hervé Broquet, Catherine Lanneau, Simon Petermann, Les cent discours qui ont marqué le XX siècle).
Mitterrand parla delle due grandi guerre del Novecento che ha vissuto personalmente e attraverso le vicende di familiari e amici, chiamando le cose con il loro nome: inimicizia tra gli uomini europei, dolore, disperazione, feriti, morti, distruzioni. Dice ai deputati che l’unico modo per non far accadere nuovamente quei disastri sta nel salvaguardare e far crescere le istituzioni europee, e che nazionalismo e guerra sono la stessa cosa.
Ricco della sua sottile ambivalenza, Mitterrand oscilla tra idealismo e realismo. Dichiara la parzialità deformante di ogni visione nazionale: “… ciascuno vede il mondo dall’angolo dove si trova, e il punto d’osservazione è in genere deformante”. Chiede di vincere i pregiudizi, e dichiara di sapere di chiedere l’impossibile “perché occorre vincere la nostra storia”. Se non ci si riesce, aggiunge, “s’imporrà una regola: il nazionalismo, è la guerra!”. Poi la chiusa, amara come un’ammonizione: “La guerra non è solo il nostro passato, può essere il nostro avvenire”.
In quel discorso il presidente francese loda “l’audacia di chi ha saputo concepire quello che avrebbe potuto essere un avvenire più radioso fondato sulla riconciliazione e sulla pace”. Si riferisce ai padri fondatori delle istituzioni dell’Europa unita, agli Schuman Monnet Adenauer De Gasperi Spinelli. Le difficoltà attuali di alcuni paesi membri come l’Italia, i limiti della solidarietà di altri, non devono far dimenticare l’enorme patrimonio edificato in 65 anni di storia comune, con al primo posto la pacificazione e l’amicizia reciproca che le istituzioni hanno regalato agli europei. Chi oggi chiama al nazionalismo come soluzione, ricorda Mitterrand, chiama alla guerra.