C’era una volta la civiltà. Così si definiva una volta uno spazio culturale capace di lasciare la sua impronta sulla storia, anche (e soprattutto) oltre i propri confini. Le grandi civiltà sono nate da grandi commistioni, da apporti esterni, dalla fusione di diverse culture. Græcia capta ferum victorem cepit: è impossibile immaginare la civiltà latina senza l’apporto della civiltà greca. La civiltà arabo-musulmana nacque dal melting pot arabo, persiano, ebraico, cristiano, turco, indiano e perfino cinese; e, senza quell’amalgama, la sua straordinaria diffusione resterebbe un mistero inesplicabile. La stessa civiltà europea (se un oggetto del genere veramente esiste) non sarebbe niente senza il fondamentale apporto musulmano.
Poi, la civiltà fu calata dal suo piedistallo e trasformata in arma di guerra. Carl Schmitt afferma che gli artefici di quell’operazione furono gli Stati Uniti, nel momento in cui entrarono nel consorzio delle grandi potenze in lotta per spartirsi il mondo. Per rompere il monopolio delle potenze europee, e del loro sistema di relazioni basato sulla sovranità, afferma Schmitt, gli americani calarono l’arma pesante della sovranazionalità, e da allora le guerre si combatterono non più tra Stati giuridicamente uguali, ma tra Civiltà e Barbarie. Nel nuovo ordine fondato su "die Tyrannei der Werte", sulla tirannia dei valori, lo scopo della guerra sarebbe stato la distruzione totale del nemico, "dichiarato fuorilegge e fuori dall’Umanità".
La ricostruzione di Schmitt, e soprattutto l’attribuzione delle responsabilità, può essere interessata: in fondo, egli era un nazionalista tedesco, nostalgico dell’Europa delle nazioni. Ma sta di fatto che nel XX secolo – e nel XXI – le cose sono andate proprio così. A decidere da che parte stia la “civiltà”, e da che parte stia la “barbarie”, non è più la cultura; sono le armi. I vincitori della guerra proclamano se stessi araldi della civiltà, e sugli sconfitti viene scaricato tutto il peso della barbarie. È così che gli inventori dell’antisemitismo “scientifico”, gli inventori dei campi di concentramento in Africa del Sud all’epoca delle guerre boere, i bombardatori di Dresda, di Amburgo e di Hiroshima, gli assassini di un milione di tedeschi disarmati dopo la fine della guerra, gli alleati del tiranno sanguinario Stalin, poterono, nel 1945, elevare se stessi al rango di “civiltà occidentale”.
Se le guerre vengono ammantate del pretesto dello scontro tra civiltà, tutti coloro che si credono in guerra, o si preparano alla guerra, indossano la tuta mimetica della civiltà. La quale, ovviamente, è sempre “offesa”, è sempre “sotto attacco”. Questo produce delle curiose consonanze semantiche, adornate da un profluvio di stilemi bellicisti, tra i difensori odierni della “civiltà occidentale” e quelli della “civiltà musulmana”. Culturalmente, se così si può dire, la loro operazione si situa agli antipodi di quella che, una volta, si chiamava civiltà: per essi l’imperativo è di rinchiudersi a riccio, di isolare e proteggere la propria immaginaria tradizione vergine di ogni contaminazione esterna, e di dichiarare “nemico dell’Umanità” chiunque osi avvicinarvisi.
À la guerre comme à la guerre. D’accordo. Ma non chiamatela civiltà.
C’era una volta la mitomania. Leggiamo dal dizionario Treccani che la mitomania è la "tendenza a mentire e ad accettare come realtà, in modo più o meno volontario e cosciente, i prodotti della propria fantasia". Nel bambino, è spesso un effetto dell’immaginazione, o una difesa; nell’adulto, "ha significato patologico".
Da qualunque parte la si guardi, la “guerra dell’islam contro l’Occidente” ha significato patologico. Tutti i Pegida d’Europa (ma anche degli Stati Uniti e dell’India) la imbracciano per difendersi contro tutto ciò che è imprevedibile, contro ciò che non capiscono. Le loro inquietudini cercano di placarsi nella ricerca di un capro espiatorio, senza sapere (o fingendo di non sapere) che, come diceva Sartre, "è l’antisemita che fa l’ebreo". Le loro paranoie sono dei cuscini per difendersi dalle asprezze della realtà.
Sul fronte opposto, vi sono coloro che nutrono quelle paranoie, e che si credono in guerra contro “l’Occidente”. È sempre difficile scommettere sulla buona fede altrui, ed è quasi sempre perdente farlo quando si tratta di cose politiche. Ma fingiamo che quei “combattenti” siano in buona fede. In quel caso, essi sono due volte ignoranti. Prima volta: del cosiddetto Occidente conoscono soltanto la versione che i suoi apologeti hanno voluto dargli. Seconda volta: non conoscono se stessi e la propria storia, perché quando combattono la “cultura occidentale”, combattono in realtà contro gli arabi che hanno fecondato l’Europa con le commistioni culturali greche, persiane, ebraiche, indiane, cinesi e, naturalmente, arabe. Combattono la grandezza del loro passato con la miseria invereconda del loro presente.
C’erano una volta i musulmani. A Parigi, ieri, sono state uccise delle persone di un’intelligenza brillante e sbrigliata. E i loro assassini non possono non fare pensare a Goebbels che, quando sentiva la parola cultura, metteva mano alla pistola.
Ma non bisogna dimenticare che, in questa guerra autoproclamata (sulle cui origini “occidentali” varrebbe la pena di riflettere un poco di più), le vittime sono, innanzitutto, musulmane. Quale che sia la penosa e tragica contabilità, se mettete insieme i pakistani, gli afghani, gli irakeni e i siriani, avete decine di migliaia di vittime musulmane per mano musulmana, un numero incomparabilmente maggiore alle vittime non musulmane. Senza neppure contare le vittime musulmane in Europa: si può solo immaginare quanto sia difficile essere musulmani nei Länder orientali della Germania; e quanto sia oggi più difficile di ieri, 7 gennaio, essere musulmani in Francia.
Molte delle vittime dell’attentato di ieri erano liberi pensatori allegri e smaliziati. Tutte le loro vignette e tutti i loro testi, però, non avranno mai effetti così devastanti sulle religioni quanto quelli scatenati da coloro che li hanno uccisi.