La libertà del web diminuisce di anno in anno. La Freedom House, organizzazione non governativa internazionale che si occupa di monitorare lo stato di libertà nel mondo, ha pubblicato giovedì il rapporto annuale riguardo la libertà in rete, Freedom on the Net. Lo studio, condotto da 70 ricercatori, ha preso in considerazione le norme nazionali che regolano l’utilizzo della rete e le possibilità di accesso a vari siti internet in 65 paesi.
Dai risultati è emerso che in 36 dei paesi analizzati la libertà dei cyber-utenti sembra diminuita rispetto all’anno passato. Sono infatti aumentati gli stati che hanno introdotto misure di censura e norme che giustifichino la repressione delle opinioni dissensienti. Si è registrato un cambio di tendenza. Prima i governi preferivano agire dietro le quinte nel controllo della rete; adesso sembrano invece puntare all’adozione esplicita di norme restrittive della libertà di espressione. Se prima il blocco del sito internet era la soluzione più gettonata per impedire il diffondersi di informazioni e opinioni non ortodosse, ora sembra invece che la carcerazione sia la pratica in voga.
Il perché è spiegato nel rapporto. Ci si è accorti che l’arresto di qualche coraggioso funge da deterrente e induce all’auto-censura, che per definizione attiene al singolo e non può essere imputata ai governi. Il ragionamento in sostanza è ridicolo, ma tecnicamente regge. Da maggio 2013 sono stati documentati arresti legati a dichiarazioni di politica o su questioni sociali in 38 dei paesi studiati. Eclatante la sentenza di ergastolo pronunciata a settembre da un tribunale cinese contro l’accademico uiguro Ilham Tohti, accusato di separatismo per aver criticato apertamente le politiche di Pechino nella regione etnicamente divisa dello Xinjiang. Nonostante questo sono comunque i cittadini iraniani quelli che meno di tutti possono partecipare e godere delle ricchezze della rete. Il che la dice lunga.

Fonte: Freedom House
I paesi in cui si è registrato il più netto peggioramento delle condizioni degli utenti della rete nel corso del 2014 sono invece Russia, Turchia e Ucraina. Il governo russo ha infatti intensificato i controlli nel web sia in occasione delle olimpiadi invernali di Sochi sia a seguito della crisi ucraina. In Turchia invece è stata varata una legge che consente al governo di oscurare website senza un ordine del tribunale, se questi siano considerati “discriminatori e diffamatori”, ed è stato bloccato Twitter per aver rifiutato di rimuovere l’account di alcuni utenti.
Al contrario, in India e Brasile la situazione è migliorata rispetto agli anni precedenti. La legge conosciuta come Marco Civil da Internet prevede infatti la neutralità del governo nella gestione della rete e una maggiore privacy per gli utenti brasiliani.
L’Italia si piazza in ottava posizione, dietro la Francia e a pari merito con il Giappone. I ricercatori della Freedom House hanno riportato che in Italia “generalmente non avvengono restrizioni sui contenuti politici, benché ci sia un drammatico aumento di siti bloccati che riguardano la vendita di beni contraffatti, streaming e downloading di materiale protetto da copyright e gioco d’azzardo illegale”. Si legge nel rapporto: “Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Censura il numero dei siti bloccati in Italia è passato da149 nel 2013 a 439 nel 2014”. Ora non si capisce bene dove sia la drammaticità nell’impedire la diffusione di siti illegali (a patto che le leggi che li rendono illegali siano leggi giuste), ma soprattuto che cosa si intenda con quel “generalmente” iniziale. Basta infatti entrare su Facebook per accorgersi di come tutti, ma proprio tutti, possano esprimere la propria opinione su qualunque cosa “under the sun”. Semmai sono la stampa e i mezzi di informazione italiani ad essere soggetti a pressioni politiche e logiche di potere. Ma questo Freedom House già lo sa. Nella sua classifica sulla libertà di informazione ha infatti inserito l’Italia al sessantaquattresimo posto, classificandola come paese “semi-libero”.