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August 25, 2014
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La fabbrica dell’indignazione

Manlio GrazianobyManlio Graziano
Time: 3 mins read

L’indignazione che assale lo spettatore medio di fronte alle guerre, massacri, attentati e infamie varie non è quasi mai genuina: è quasi sempre un’indignazione telecomandata. Ciascuno di noi crede di indignarsi per una giusta causa; invece, quasi sempre, si indigna per la causa di qualcun altro.

Esiste dappertutto, dove più dove meno, una fabbrica dell’indignazione che orienta i sentimenti popolari quando gli interessi nazionali lo richiedano. Per dimostrare l’efficacia di tale fabbrica, ricordai una volta a un gruppo di miei studenti francesi adulti i sentimenti opposti della quasi totalità degli americani e della totalità dei francesi in occasione della guerra del Golfo nel 2003. Uno degli studenti alzò la mano e disse: «Sì, mai noi avevamo ragione». Quod erat demonstrandum.

Le guerre, massacri, attentati e infamie varie che hanno costellato questa estate 2014 sono un’occasione per ritornare sulla facilità con la quale i nostri sentimenti possano essere orientati a sostegno degli scopi più vari.

Basti pensare al diverso trattamento riservato dalle cancellerie “occidentali” e dai media alla guerra nel Vicino Oriente e alla guerra in Ucraina orientale. Gli attacchi dell’esercito israeliano e dell’esercito ucraino hanno fatto, più o meno negli stessi giorni, più o meno lo stesso numero di vittime, prevalentemente civili. Nell’una e nell’altra regione, scuole, ospedali e bambini sono stati colpiti. Nell’un caso, sdegnate manifestazioni si sono tenute nel mondo intero contro i crimini israeliani; nell’altro, niente. Nell’un caso, la guerra di Hamas è stata giustificata, tra l’altro, con la necessità di aprire le frontiere agli aiuti umanitari; nell’altro, la guerra di Kiev è stata giustificata, tra l’altro, con la necessità di chiudere le frontiere agli aiuti umanitari. Nell’un caso, le frontiere sono state sigillate per paura che, con gli aiuti umanitari, entrino anche le armi. Nell’altro caso, idem.

I miliziani di Hamas hanno voluto ricordare al mondo intero di che pasta sono fatti, freddando in pubblico 18 palestinesi sommariamente accusati di intelligenza col nemico. Ma neppure questo atto di ordinaria barbarie ha rimesso in moto il pendolo dell’indignazione. Non basta sapere che in Israele vivono centinaia di migliaia di arabi e che, invece, a Gaza la speranza di vita di un ebreo sarebbe tutt’al più di qualche ora. Non basta sapere che in Israele vi sono, seppure sporadiche e certamente impopolari, manifestazioni contro la guerra e perfino di simpatia verso i palestinesi, mentre a Gaza una manifestazione di simpatia verso gli israeliani, o addirittura verso gli ebrei, sarebbe considerata un atto di tradimento passibile di ciò che sappiamo. Neppure questo smuove il pendolo dell’indignazione, perché l’indignazione è stata convogliata in una direzione sola.

Mentre si delinea sempre più chiaramente una nuova fase di collaborazione tra gli Stati Uniti e l’Iran, e l’indignazione è sempre più esclusivamente incanalata contro un sunnismo dai tratti belluini, ecco che una milizia di belluini sciiti si incarica di entrare in una moschea sunnita e di massacrare tutti coloro che sono raccolti in preghiera, compresi bambini, donne e anziani. La notizia viene diluita nella speranza che i barbari dell’ISIS siano i veri colpevoli e, anche in questo caso, il pendolo non si muove.

Mentre il generale Abd al-Fattah al-Sisi cerca di rilanciare le quotazioni dell’Egitto sul campo della diplomazia internazionale, Human Rights Watch pubblica un documento in cui il massacro dei manifestanti pro-Morsi del 14 agosto 2013 è considerato «the world’s largest killings of demonstrators in a single day in recent history», talmente «unprecedented» nelle sue dimensioni da superare Tienanmen. Tuttavia, non solo quel massacro non ha provocato neppure un frammento dell’indignazione suscitata all’epoca dalla repressione di Tienanmen, ma le riserve di simpatia di cui l’opinione pubblica è così prodiga si sono più generosamente riversate sul golpista al-Sisi che sulle sue vittime. 

Nel 1981 scoprimmo che il golpe del generale Pinochet meritava indignazione, mentre il golpe del generale Jaruzelski meritava comprensione. L’indignazione e la comprensione non sono guidate dalla simpatia per le vittime, ma dalla simpatia o meno che le cancellerie e, conseguentemente, i media dei loro paesi, hanno per i carnefici.

Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Ma in una fase di relazioni internazionali rapidamente cangianti, è bene ricordare che gli esecrati nemici di oggi possono diventare i simpatici alleati di domani. Nel 1983, gli Stati Uniti sostennero l’Irak nella guerra contro l’Iran, mandando l’allora segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, a stringere pubblicamente la mano a Saddam Hussein. E nel dicembre 2007, Nicolas Sarkozy accolse in pompa magna Mu’ammar Gheddafi, consentendogli perfino di piantare la sua tenda beduina nel giardino dell’Eliseo per i suoi quattrocento accompagnatori.

Le alleanze si stanno già spostando. E, anche se non lo sappiamo ancora, i nostri sentimenti pure.

 

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Manlio Graziano

Manlio Graziano

Insegno geopolitica e geopolitica delle religioni alla Sorbona e all’American Graduate School in Paris. Ho scritto In Rome we Trust. Cattolici e vita politica americana (Il Mulino, 2016), Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo (Il Mulino, 2015; ed. inglese Columbia University Press, 2016); The Failure of Italian Nationhood (Palgrave-MacMillan 2010, anche in francese e italiano); Identité catholique et identité italienne (L’Harmattan, Parigi, 2007); Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa (Laterza, Roma, 2010) e Essential Geopolitics: A Handbook (eBook Amazon, 2011). Collaboro con Limes, rivista italiana di geopolitica.

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