Justice matters, “la giustizia è importante”. Questo è stato il grido di battaglia delle Nazioni Unite in occasione della Giornata della giustizia Penale Internazionale (International criminal justice day). Per festeggiare il 17 luglio la missione permanente italiana alle Nazioni Unite ha organizzato una conferenza dal titolo “L’ONU e la CPI: partner dai valori condivisi” (The Un and the ICC: partners of shared values), a cui hanno partecipato, oltre al Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon e all’Ambasciatore italiano Sebastiano Cardi, anche il giudice sudcoreano Sang-Hyun Song, Presidente della CPI, l’Ambasciatrice Tiina Intelmann, Presidente dell’Assemblea degli Stati Parte della CPI e Miguel de Serpa Soares, Sottosegretario generale degli affari legali. Il 17 luglio è il giorno in cui, nel 2002, è stato ratificato lo Statuto di Roma, che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale (CPI). Lo statuto era nato, in realtà, quattro anni prima, ma è entrato in vigore solo nel 2002 perché solo allora è stato raggiunto il numero minimo di Paesi ratificanti (60). Da allora i Paesi sono diventati 122 (più della metà dei 193 stati membri del’ONU). Tra questi l’Italia ha svolto sin dall’inizio un ruolo da protagonista, grazie al Partito Radicale e all’organizzazione di Emma Bonino “Non c’è pace senza giustizia”.
Tutti i partecipanti all’evento hanno ricordato la proficua relazione tra le Nazioni Unite e la corte Penale Internazionale: due organizzazioni indipendenti tra loro (la CPI non va confusa con la Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU, anche se entrambe hanno sede all’Aia) ma che “condividono gli stessi valori”, ha ricordato Sang-Huyn Song, “ovvero la pace, la sicurezza e il rispetto dei diritti umani; la realizzazione di questi obiettivi si può ottenere solo attraverso la cooperazione internazionale”. È per questo che oggi il Segretario Generale Ban Ki-moon ha voluto festeggiare anche i 10 anni di collaborazione tra l’ONU e la CPI. “L’obbligo di rispondere a crimini gravi di interesse internazionale”, ha dichiarato Ban Ki-moon, “è centrale nel nostro impegno globale per la pace, per i diritti umani e per le libertà fondamentali”, perché tali obiettivi si possono raggiungere solo “se c’è la certezza che i più gravi crimini internazionali possano essere portati in tribunale”.
Dall’Italia è arrivato un messaggio del ministro degli Affari Esteri Federica Mogherini che ha ricordato l’importanza di “non chiudere mai gli occhi, di fronte alle responsabilità di coloro che hanno compiuto atrocità che il diritto internazionale riconosce e condanna come atti di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.
Ma, anche se oggi la bandiera della Corte Penale Internazionale è stata issata, accanto a quella italiana, nel palazzo della Farnesina, non tutto è rose e fiori. Ogni "Paese Parte”, ad esempio, anche se ha ratificato lo Statuto, prima di aderirvi totalmente deve adeguare il proprio ordinamento giuridico. Per farlo l’Italia ci ha impiegato ben 15 anni: solo nel febbraio del 2013, infatti, il nostro Paese ha inserito le norme che permettono a un giudice di eseguire un mandato di arresto per qualunque criminale di guerra transiti nel nostro territorio. Ciò significa che, fino a un anno e mezzo fa, se un criminale come Omar Al Bashir, presidente del Sudan e "il macellaio del Darfur", avesse deciso di trasferirsi nel Belpaese, difficilmente si sarebbe trovato il mondo per estradarlo. Inoltre, molti Paesi che hanno un peso determinante nella politica internazionale non hanno ratificato lo statuto: tra questi spiccano in primo luogo gli Stati Uniti, seguiti da Israele e dal Sudan, che si sono limitati a firmare simbolicamente il documento. Molto più numerosi sono i Paesi che non hanno neanche firmato, come la Cina, l’India, la Somalia, Cuba, solo per citarne alcuni.
Il cammino da fare è ancora molto, molto lungo, perché, per dirla con Martin Luther King, “l’ingiustizia in qualunque luogo è ovunque una minaccia per la giustizia”.