La battaglia in corso in Irak rappresenta probabilmente un punto di svolta in Medio Oriente. A quasi cent’anni dall’accordo tra inglesi e francesi sulla spartizione delle spoglie arabe dell’Impero ottomano (1916), i confini decisi allora con un tratto di matita si stanno dissolvendo. E oggi, a un’epoca in cui i rapporti di forza tra grandi e piccole potenze sono (e saranno certamente per i prossimi anni) allo stato fluido, nessuna nuova forma sembra potersi profilare.
Per decenni, molti hanno creduto che la chiave di volta delle relazioni mediorientali fosse il conflitto israelo-palestinese. In realtà, la Palestina è stata il pretesto – e l’ostaggio – di una competizione ininterrotta tra piccoli e medi potentati locali per egemonizzare l’intera regione. Le grandi potenze si sono regolarmente immischiate in questa competizione con tre scopi fondamentali: 1) attestarsi nel «più antico crocevia dei traffici del mondo» (Fernand Braudel); 2) approfittare della manna petrolifera; 3) rinfocolare le rivalità e le gelosie tra i potentati locali per perpetuarne il frazionamento.
Per decenni, insomma, il conflitto israelo-palestinese è stato l’arbusto che ha impedito di vedere la foresta.
Ora, la foresta si sta prendendo la rivincita. Una volta scemata la possibilità di giocare la carta della (inesistente ma costantemente vagheggiata) “unità araba” o quella della (inesistente ma costantemente vagheggiata) “unità musulmana” contro Israele, gli arabi e i musulmani calano la maschera dell’unità e si sparano tra di loro.
Lo hanno sempre fatto, certo. Negli ultimi cinquant’anni almeno, sono soprattutto musulmani che hanno ucciso altri musulmani, arabi che hanno ucciso altri arabi e palestinesi che hanno ucciso altri palestinesi. A forza di concentrare tutte le attenzioni su Israele, si era persa di vista una realtà che, dall’inizio delle rivoluzioni arabe, è emersa in tutta la sua incontrovertibile evidenza.
Tutte le armi sono state utilizzate in questa guerra civile tra arabi e tra musulmani. L’arma ideologica (il nazionalismo arabo, usato soprattutto dall’Egitto e, per un momento, dall’Irak e perfino dalla Libia); l’arma etnica (arabi, curdi, persiani e turchi); e l’arma religiosa (sunniti, sciiti e cristiani di varia obbedienza). Nel conflitto in corso in Irak in questi giorni – forse proprio perché si tratta di un punto di svolta – tutte queste armi sono utilizzate al tempo stesso, e nel modo più intenso possibile.
Tuttavia, non si tratta né di una guerra nazionale, né di una guerra etnica, né di una guerra religiosa. Come ha scritto Graham Fuller nel suo imprescindibile A World Without Islam, «la religione sarà sempre invocata ovunque possibile per galvanizzare il pubblico e giustificare le campagne, le battaglie e le guerre più importanti»; ma le «campagne, battaglie e guerre non riguardano la religione».
Ciò non significa che i sentimenti religiosi, etnici o nazionali non siano copiosamente sfruttati: anzi, quei sentimenti sono stati, sono e saranno al centro di ogni motivazione bellica, e più sono profondi, come il sentimento religioso, più sono efficaci.
Le azioni militari e terroristiche dei gruppi sunniti che hanno catturato Mossul e altre zone del nord dell’Irak non hanno niente a che vedere con la jihad né possono portare alla costituzione di un califfato, ma sono combattute da un personale che crede fermamente nella jihad e nella restaurazione del califfato. Confondere i fini reali di una guerra con le motivazioni utilizzate per mandare i fanti a massacrare e a farsi massacrare significa, una volta di più, perdere ogni possibilità di capire che cosa stia succedendo.
Non è une guerra di sunniti contro sciiti, perché i curdi sunniti sono ostili ai guerriglieri sunniti “di Siria e d’Irak” almeno tanto quanto gli irakeni sciiti (i quali, a loro volta vorrebbero schiacciare i curdi sunniti). È una guerra geopolitica regionale dell’Iran contro l’Arabia Saudita (e viceversa) combattuta da fantaccini sciiti e sunniti, con il terzo incomodo curdo. Il problema è che, quando i pretesti ideologici usati per mobilitare e motivare le truppe toccano i sentimenti, gli impulsi e gli istinti dei fantaccini, è possibile che questi vi credano davvero, e finiscano per combattere per quei pretesti. E questo è particolarmente vero in una proxy war, come quella in corso.
Lo abbiamo già visto in Afghanistan, dove gli americani e i pakistani hanno creduto di potersi servire dei mujaheddin e dei talebani per i loro scopi, e hanno finito per ritrovarsi mujaheddin e talebani a combattere contro di loro.
La proxy war saudo-iraniana in Irak non potrà mai sfociare in un califfato, ma potrà molto facilmente sfociare in un massacro infinito tra musulmani sunniti e musulmani sciiti.