Giovedi 22 maggio l’esercito ha preso il potere in Thailandia e ha imposto la legge marziale, nell’intento di mettere fine alle manifestazioni che negli ultimi sei mesi hanno opposto le cosiddette “camicie rosse” alle “camicie gialle”. Queste ultime provengono dalla classe media di Bangkok e dalle campagne del sud, simpatizzanti del partito democratico, mentre le camicie rosse sono la voce degli agricoltori del nord e nord-est e dei ceti popolari di Bangkok, che sostengono il partito degli Shinawatra.
I militari hanno disperso le manifestazioni e imposto il coprifuoco, hanno censurato i media nazionali e internazionali e hanno minacciato di bloccare i social network e i siti internet che pubblicheranno contenuti critici.
Nonostante il divieto imposto ai raduni di più di cinque persone, delle manifestazioni contro il colpo di Stato hanno avuto luogo a Bangkok e a Chiang Mai, bastione elettorale degli Shinawatra, nel nord del paese.
L’esercito ha inoltre arrestato l’ex premier Yingluck Shinawatra insieme con altri 154 leader politici e funzionari governativi, principalmente associati al suo partito politico.
Il generale Prayuth Chan-ocha, leader delle forze armate, ha sottolineato la necessità di attuare delle riforme e riportare il paese all’ordine prima d’indire le elezioni e di restituire il potere agli organi civili.
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Tutto questo in un’atmosfera «da fine del regno», in cui la successione al re Bhumibol, il monarca più vecchio al mondo, si annuncia quanto mai delicata, come spiega a La Voce di New York David Camroux, esperto dei paesi asiatici e professore all’Istituto di Studi Politici “SciencesPo” di Parigi.

David Camroux
Secondo il generale Prayuth un colpo di Stato era oramai necessario “per far tornare il paese alla normalità”. L’esercito è davvero un attore neutro come vuole far credere?
Sin dall’inizio delle proteste contro il governo di Yingluck Shinawatra a novembre scorso, il generale Prayuth ha fatto sapere più volte che l’esercito era pronto a intervenire. Questo colpo di Stato era piuttosto prevedibile. È il 19esimo che è stato tentato dal 1932 [data in cui la Thailandia è diventata una monarchia costituzionale] e il 12esimo che è andato a buon fine: nulla di nuovo quindi.
L’esercito vuole dare l’impressione della neutralità, arrestando dei leader che appartengono sia alle camicie rosse che alle camicie gialle, ma il modo in cui vengono trattati è diverso. Le camicie gialle sono scortate gentilmente nelle camionette dei militari e riportate a casa loro, mentre le camicie rosse vengono disperse con la forza.
In realtà, negli ultimi sei mesi, le camicie gialle hanno sperato in un colpo di Stato. È stato fatto di tutto per creare un clima d’instabilità e di violenza, in modo da spingere l’esercito a intervenire. Gli sviluppi recenti vanno quindi nella direzione desiderata dalle camicie gialle.
Inoltre si va verso un governo a interim, un’altro sviluppo auspicato dalle camicie gialle. Queste ultime vogliono le riforme, chiedono che il parlamento eletto venga sostituito con un parlamento nominato e che i poteri dell’esecutivo vengano limitati a favore di altre istituzioni. Quindi le camicie gialle risultano vincitrici in questo scontro, almeno per il momento.
C’è un altro attore in gioco: la monarchia. Qual è il suo ruolo e che relazioni intrattiene con l’esercito?
Il re è un attore politico, un attore che interviene raramente ma che ha un peso importante. È intervenuto più volte per abbassare i toni, nel 1973, nel 1976 e poi nel 1992 appunto dopo un colpo di Stato, facendo la parte del paciere della nazione, dell’arbitro neutro che fa smettere i ragazzini di litigare. Il problema è che il re Bhumibol ora ha 86 anni ed è malato, non ha neanche la capacità fisica d’intervenire.
Il generale Prayuth ha fatto parte della guardia reale, quindi è vicino alla famiglia reale e agli ambienti monarchici. Tuttavia, questa volta non sembra che il colpo di Stato sia stato fatto con l’accordo del re, [come invece successe nel 2006, quando il re diede il suo accordo perlomeno tacito].
Le camicie gialle fanno pressione per attuare le riforme prima che il re muoia perché il principe Vajiralongkorn, erede al trono, è considerato come un fedele di Thaksin Shinawatra. Il principe è molto poco amato [dalla popolazione] e sono stati avanzati dei dubbi sulla sua salute mentale. Credo che ora si voglia andare velocemente, per attuare il prima possibile la nuova costituzione, che sarebbe la 20esima dal 1932, e fare il massimo per impedire il ritorno di Yingluck, Thaksin e il loro partito.
Ogni volta che i militari mettono in atto un colpo di Stato, lo fanno a nome del re, presentandosi come i garanti dell’unità nazionale, come i protettori del regno e del monarca.
I militari svolgono in certo modo il ruolo del jolly, ritornando puntualmente per cambiare le sorti della partita e per difendere i loro interessi [legati] all’establishment di Bangkok, alle sfere degli affari, alla funzione pubblica e all’entourage monarchico.
In Thailandia ci sono state delle fasi di dittatura militare, grosso modo dal 1932 al 1973, ma dagli anni ’80 in poi l’esercito non ha più voluto mantenere il potere e controllare [direttamente] il paese.
A partire dagli anni ‘80 infatti i generali a fine carriera si sono tolti le uniformi per trasformarsi in uomini politici e uomini d’affari, ma hanno mantenuto i contatti con i vecchi compagni dell’esercito.
I militari sembrano voler obbligare i leader politici al dialogo e alle riforme. Ma come può un dialogo democratico avviarsi a comando?
Il dialogo democratico è una farsa. [In questi giorni], ci sono state due riunioni, al termine delle quali Prayuth ha dichiarato che era impossibile trovare un compromesso e che quindi la legge marziale diventava a quel punto un colpo di Stato e l’esercito prendeva il potere.
Credo che ora Prayuth ordinerà al Senato di nominare un primo ministro e un governo a interim. Poi chiederà al Senato, alla Corte costituzionale, alla Commissione elettorale e alla Commissione nazionale anti-corruzione di creare una Commissione costituzionale, con il ruolo di redigere una nuova costituzione e d’indire su questa base delle elezioni, tra sei mesi o al più un anno.