Due anni e nove mesi, tanto è durato l’incarico di primo ministro della Thailandia di Yingluck Shinawatra, fino a ieri, quando una sentenza della Corte Costituzionale l’ha dichiarata colpevole di abuso di potere rimuovendola dalle sue funzioni.
Secondo il verdetto, nel 2011 Yingluck avrebbe allontanato dal suo posto l’allora responsabile del Consiglio di Sicurezza Nazionale, in modo da far ottenere il ruolo di capo della Polizia all’ex cognato di suo fratello Thaskin.
Insieme con lei, altri nove ministri del suo governo sono stati dichiarati coinvolti nel caso e destituiti dai loro incarichi. A sostituirla nelle sue funzioni di primo ministro a interim è il vice-premier e ministro del Commercio, Niwatthamrong Boonsongphaisan, anch’egli vicino a Thaksin e nel partito Pheu Thai.
Un’altra accusa pende inoltre sulla testa di Yingluck: quella di negligenza nel controllo della corruzione durante un programma di acquisto del riso messo in atto dal suo esecutivo, che ha fatto perdere miliardi di dollari alle casse statali. Se riconosciuta colpevole, Yingluck rischia l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
“Durante il mio incarico come primo ministro ho dedicato tutte le mie energie al mio lavoro, per il beneficio dei miei connazionali… Non ho mai commesso nessun atto illegale come ciò di cui mi si accusa,” ha dichiarato Yingluck Shinawatra.
In una Thailandia in stallo politico cronico e manifestazioni a non finire da oramai sei mesi, questo verdetto riaccende pericolosamente la rabbia dei sostenitori degli Shinawatra e le speranze dei manifestanti anti-governativi, per cui la testa di Yingluck non è che l’inizio.
“Spero che di conseguenza la situazione politica non si surriscaldi,” ha detto Niwatthamrong riferendosi al verdetto della corte, ma la prospettiva di nuove manifestazioni è quanto mai reale e preoccupante. Le proteste hanno già provocato la morte di 25 persone e il ferimento di altre centinaia. Nella notte di mercoledì quattro bombe di piccolo taglio sono state fatte esplodere a Bangkok, una delle quali di fronte al domicilio di un giudice della Corte Costituzionale.
Una manifestazione contro la sentenza è stata annunciata per sabato 10 maggio dalle cosiddette “camicie rosse”, che appoggiano il clan degli Shinawatra. Esse accusano i giudici di faziosità contro gli esponenti politici vicini a Thaksin, il fratello di Yingluck e ex-premier ora in esilio per sfuggire a delle accuse di corruzione in patria.
La condanna della Corte Costituzionale soffia su un fuoco che già scotta, ma non cambia, almeno per ora, le carte in tavola. Solo alcuni ministri infatti sono stati destituiti e non tutto il governo, che resta quindi in carica.
Esso opera, sin da fine 2013, senza un parlamento. Quest’ultimo è stato dissolto a dicembre quando Yingluck ha indetto delle elezioni a sorpresa per calmare le proteste, rendendo a interim il governo. I piani di Yingluck però non sono andati come previsto e i risultati delle elezioni del 2 febbraio sono stati dichiarati invalidi perché in alcuni seggi il voto non ha potuto aver luogo a causa delle manifestazioni.
Nel frattempo, nuove elezioni sono state annunciate per il 20 luglio, ma il partito democratico, principale forza d’opposizione, si è già dichiarato contrario. Inoltre le urne rischiano di essere di nuovo perturbate e invalidate dai manifestanti anti-governativi.
Riassumendo: l’esecutivo resta in carica e a interim, mozzo e claudicante come prima; il primo ministro è sempre un fedele di Thaksin; i dimostranti continuano a chiedere l’istituzione di un consiglio non eletto che faccia le riforme prima di fare le elezioni; l’esecutivo continua a premere per andare alle urne al più presto; il parlamento resta inesistente, Thaksin è sempre in esilio e il futuro della Thailandia resta nuvoloso e incerto.
Le proposte che sono state avanzate da alcuni esponenti politici, a loro dire per uscire dallo stallo, sembrano una mera ripetizione delle stesse posizioni dietro cui le due parti sono andate trincerandosi negli ultimi mesi.
Il partito Pheu Thai ha proposto che si vada alle urne, ogni partito con un programma di riforme alla mano, e che un consiglio per le riforme venga creato dopo le elezioni. Al contrario, il leader dei democratici Abhisit Vejjajiva ha presentato una proposta che ricalca quella dei manifestanti in piazza, ovvero la creazione di un governo tecnico a interim che realizzi delle riforme strutturali prima di indire le elezioni. Insomma, elezioni prima, riforme poi o riforme prima, elezioni poi: nulla di nuovo sotto il sole di Bangkok.
E intanto continua a tacere l’esercito. Loro, i militari, che già tante volte nel passato hanno cambiato le carte sul tavolo politico, come quando nel 2006 con un colpo di stato hanno tolto il potere a Thaksin, allora primo ministro, spingendolo alla fuga all’estero. Con l’avanzare imperterrito della crisi politica e sociale, c’è da domandarsi se non si decideranno a un certo punto a intervenire.