La crisi aperta in Europa dalla Russia con l’annessione della Crimea e la minaccia ad altre parti russofone di Ucraina, presenta almeno tre somiglianze con quella che Saddam Hussein aprì con l’annessione del Kuwait nel 1990. In ambedue i casi, uno stato più grande e potente pretende di aver diritto a “riprendersi” una parte di territorio che appartiene ad altro stato riconosciuto e sovrano. A sostegno delle proprie ragioni, ambedue utilizzano non la via diplomatica ma quella delle armi, in modo incomparabilmente più brutale Saddam. La terza somiglianza è quella che più interessa per il ragionamento che qui si propone, e riguarda le responsabilità della diplomazia statunitense e in genere occidentale.
Gli storici concordano nell’attribuire a Saddam la convinzione, maturata anche nei colloqui con l’ambasciatore statunitense dell’epoca fin nell’immediata vigilia dell’invasione dell’Iraq, che Washington, alleata nel conflitto contro gli sciiti iraniani, fosse disposta a chiudere un occhio e lasciar passare, salvo qualche rimbrotto d’obbligo, l’aggressione al Kuwait. Qualcosa del genere si ritrova nell’atteggiamento occidentale verso la lunga involuzione ucraina. Dopo gli entusiasmi della rivoluzione arancione e il biennio (2007-8) del diretto coinvolgimento e aiuto di Ue, Rft, Usa, si lascia spazio a Putin, abilitato a interpretare il disamore occidentale come un premio alle sue ambizioni di ricostituire ad ovest un cuscinetto filorusso.
Tre presidenti statunitensi, Clinton Bush e Obama, hanno voluto credere che Putin potesse essere addomesticato e convertito al partenariato strutturale con l’occidente e al galateo di relazioni internazionali basate sul diritto e non sulla forza. In quest’ambito hanno scelto di chiudere gli occhi su episodi come l’invasione della Georgia, la ferocia contro le insorgenze islamiche e indipendentiste del Caucaso, il pesante protettorato economico e politico sull’Ucraina accentuato dalla carcerazione della Tymoshenko, gli assassini di oppositori in Russia e fuori, la repressione dei diritti democratici all’interno, il sequestro delle maggiori fonti di ricchezza del paese. Hanno voluto dimenticare che Vladimir Putin nasce presidente per scelta dei circoli che giubilano il malconcio Eltsin perché intendono superare la crisi postsovietica e perseguire la restaurazione della grande Russia ortodossa e autocratica.
A fronte di quel balzo all’indietro di un secolo, l’occidente allarga in G8 il tavolo dei grandi. E’ un segnale che Putin interpreta come via libera e riconoscimento del ritorno granderusso: gli europei possono essere manipolati con il petrolio e il gas che non hanno, e gli americani preferiranno sempre mantenere il collaudato bipolarismo che amministra il rischio nucleare, piuttosto che andare a un conflitto che sa d’idealismo da anni di guerra fredda.
Kiev non è Kuwait City, e non è neppure Danzica. Le democrazie non provarono a morire per Danzica, figurarsi se si porranno il problema di morire per Kiev o Kharkiv o Donetsk in Ucraina, o per Simferopoli o Sebastopoli in Crimea. Per gli Usa quanto accade al confine tra Russia e Ucraina è al più questione regionale, se non addirittura interna; poca roba in termini di politica globale. Per questo Washington non si mostra scandalizzata dalla violazione russa dell’Atto finale della Csce e del trilaterale di Budapest del 1994, che impegnava al rispetto di “indipendenza, sovranità e confini” dell’Ucraina, oltre che al non uso di mezzi coercitivi economici. Anche più blanda la posizione dell’Ue e di molti leader dei paesi membri, consapevoli delle debolezze dell’Ucraina. L’abbraccio dell’orso russo seduce molti: ignorano quanto possa far male quando stringe.