Nei primi mesi della guerra in Siria, uno studente mi chiese perché i russi sostenessero così pervicacemente il regime di Assad, sfidando non solo la “comunità internazionale”, ma anche il buon senso, visto che, a quel tempo, sembrava che Assad dovesse cadere da un giorno all’altro. Se lo scopo dei russi, aggiunse lo studente, è conservare l’ultima testa di ponte in Medio Oriente e l’unica base militare nel Mediterraneo (il porto di Tartus), allora stanno giocando col fuoco: se vincono i ribelli, la prima cosa che faranno è buttare a mare i russi. Tutto vero, risposi, e l’unica spiegazione che posso dare ad un comportamento a prima vista incomprensibile è che i russi sappiano ciò che noi non sappiamo: e cioè che Assad non cadrà.
Tre anni dopo, si può dire che avessero visto giusto. Il Cremlino, forte di una delle migliori intelligence e di una delle migliori diplomazie al mondo, potevano vedere cose che noi, comuni mortali, possiamo solo ipotizzare, e sovente con un grande sforzo di fantasia.
La situazione che si è venuta a creare tra la Russia e l’Ucraina appartiene allo stesso repertorio di avvenimenti a prima vista incomprensibili e inesplicabili. È probabile, anche in questo caso, che Mosca veda, e sappia, cose che noi non vediamo e non sappiamo.
A prima vista, il gran perdente di questa vicenda ucraina sembrerebbe proprio essere Putin. E con lui il progetto di ricostituire lo spazio imperiale russo. Nessun’ipotesi di ricostruzione in tal senso può infatti essere credibile senza l’Ucraina. E se c’è una cosa che appare incontrovertibile, oggi come oggi, è che gli attuali dirigenti di Kiev non ne vogliono più sapere, di Mosca: il 19 marzo, l’Ucraina ha annunciato il suo ritiro dalla Comunità degli Stati indipendenti, quel pallido fantasma dell’Unione Sovietica creato il giorno stesso della sua dissoluzione.
Dato per certo che né Putin né i suoi collaboratori sono matti, né particolarmente inclini a sacrificare gli interessi strategici della Russia per qualche momento di effimera popolarità, bisogna cercare di far delle ipotesi su quello che i dirigenti russi vedono e che noi non vediamo.
La prima ipotesi riguarda l’Ucraina stessa. I russi potrebbero avere in mente una ripetizione dello scenario georgiano: qualche anno dopo la guerra del 2008, l’intransigenza antirussa e “pro-occidentale” del presidente Saakashvili è stata punita alle urne; anche la Georgia ha abbandonato la CSI, nell’agosto 2008, senza però entrare né nella NATO né nell’Unione europea. Anzi, proprio la guerra del 2008 ha segnato la linea rossa da non superare nell’avanzata “occidentale” nei territori dell’ex impero russo.
Ovviamente, l’Ucraina non è la Georgia. Ma questo vale in entrambi i sensi. Da una parte, esiste in Europa (in Germania e in Polonia innanzitutto) un interesse reale a “riportare a casa” l’Ucraina; dall’altra, in Ucraina, le forze politiche, economiche, sociali e culturali legate alla Russia sono molto più radicate di quanto il successo di Maidan lasci pensare. E anche nel caso ucraino non è escluso che, quando la polvere si sarà posata, queste forze possano, un giorno o l’altro, imporsi elettoralmente (come d’altronde già accadde sei anni dopo la “rivoluzione arancione”).
Cosa impedisce alla Germania di approfittare del momento propizio per portare l’Ucraina nel suo girone? O cosa impedisce agli Stati Uniti di approfittare del momento propizio per portare l’Ucraina nella NATO? In entrambi i casi, la risposta più gettonata riguarda il rischio di un brusco, e forse irreparabile, deteriorarsi dei rapporti con la Russia. Con tanto di rappresaglie: verso la Germania, la rappresaglia energetica ed economica (pagata però anche da Mosca); verso gli Stati Uniti, la rappresaglia sul fronte iraniano e, appunto, su quello siriano; e magari un’accelerazione della strategia dell’attenzione russa nei confronti dell’Egitto e dell’Arabia Saudita.
Ma vi sono altre ragioni. La Germania non può prendere decisioni in nome proprio. E nell’Unione europea vi sono, a proposito, tante posizioni quanti Stati. Anzi, di più, visto che paesi come la Francia cambiano tono un giorno su due. In testa alla truppa violentemente antirussa la settimana scorsa, Parigi si domanda ora perché dovrebbe pagare, per le (ipotetiche) sanzioni contro Mosca, un prezzo più alto di quello di altri paesi dell’Unione. Va detto che i cantieri navali di Saint-Nazaire hanno appena varato le due navi da guerra Misral (una delle quali si chiama Sebastopoli) che la Francia ha venduto alla Russia nel 2011 per più di un miliardo di dollari. In poche parole, uno spettro si aggira per l’Europa: quello di una divisione come nel 2003, e forse peggio.
Per gli Stati Uniti, le cose sono relativamente più semplici. Se la Germania non può portare a casa il bottino ucraino, e se le relazioni tra la Russia e gli europei sono deteriorate, l’obiettivo è stato raggiunto. E siccome la Cina non ha votato insieme alla Russia al Consiglio di sicurezza, l’obiettivo è stato raggiunto due volte. Certo, per continuare la finzione della “unità dell’Occidente” (finzione utile anche per Mosca), Washington continuerà con le sue tradizionali dichiarazioni di scandalo, riprovazione e condanna. Assortite magari di sanzioni tanto rumorose quanto inconsistenti.
Come ai bei tempi dell’ottobre 1956, quando, alla rituale e futile condanna di Mosca per l’invasione dell’Ungheria, Washington accoppiò l’accordo con Mosca per cacciare, per sempre, gli inglesi e i francesi da Suez.