Secondo lo storico Niall Ferguson, la Prima Guerra mondiale fu «il peggiore incidente ferroviario di tutti i tempi». La metafora nasce da una convinzione ormai molto diffusa in sede storica: la guerra non era nell’interesse di nessuno, ma fu il risultato di una serie di equivoci, spacconate, coincidenze, errori che scatenarono un meccanismo (le locomotive) finito fuori controllo. La ragione, secondo questa tesi, era contro la guerra; fu il prevalere dell’irrazionalità che precipitò la situazione, in quel giugno di cento anni fa.
I pochi scenari della crisi ucraina di cui disponiamo, tutti accuratamente distorti dalla propaganda, inducono talvolta a pensare che la ragione (cioè il freddo calcolo degli interessi in gioco) sia già stata sopraffatta da un’ondata di irrazionalità.
L’interesse della Germania dovrebbe essere – razionalmente parlando – quello di calmare il gioco. Da un punto di vista strategico, se la politica tedesca fosse ancora di piena prerogativa di Berlino, la soluzione ideale sarebbe una nuova Ostpolitik: alla fine degli anni Sessanta, Bonn entrò con i suoi capitali nell’asfittica sfera d’influenza sovietica per ridarle l’ossigeno di cui aveva disperatamente bisogno. Beninteso, tale politica non poteva che essere attuata d’intesa con Mosca, la quale, dal canto suo, contava sui capitali tedeschi per allentare le tensioni sociali e politiche che avevano condotto, tra l’altro, alla “primavera di Praga”, senza con questo rimettere in discussione gli schieramenti internazionali.
Oggi, non solo i capitali non sono più denominati in marchi, ma in euro; ma inoltre, le scelte di politica estera devono anch’esse passare per l’avallo dell’Unione europea. E nell’Unione europea esiste una nutrita pattuglia di paesi – citiamo a titolo d’esempio la Francia e la Polonia – che pavlovianamente tendono ad imbizzarrirsi ogniqualvolta la Germania e la Russia trovano (o rischiano di trovare) un’intesa.
Per allontanare tale possibilità, i sunnominati europei battono oggi gli stessi sentieri imboccati dagli americani: alzando i toni e cercando di mettere Putin nell’angolo. Ben sapendo che, per l’immagine che si è costruito, Putin non potrà mai accettare di farsi mettere nell’angolo, e tantomeno di mostrarsi arrendevole. Ogni minaccia di rappresaglia contro la Russia sembra dunque destinata ad accentuare la sua intransigenza.
Tra i vari protagonisti della crisi – se si eccettuano ovviamente gli ucraini stessi – il presidente russo sembra, allo stato attuale delle cose, quello più in difficoltà. Razionalmente parlando, la sua intenzione non può essere quella di annettere la Crimea. Un’operazione del genere rischierebbe quasi certamente di precludergli per sempre la possibilità di far rientrare l’Ucraina nel girone della Russia. Potrebbe dargli un po’ di lustro momentaneo presso i nazionalisti più fatui e vaniloquenti, ma segnerebbe la fine della sua ambizione strategica (oltre a portargli in dote un certo numero di grattacapi economici).
Se le cose andassero come sembra, cioè verso un’annessione della Crimea, allora si potrebbe dire che Putin ha perso il controllo della locomotiva. E oltre alla sua – a termine – sconfitta strategica, c’è il rischio, quasi la certezza, che il confronto per ora solo verbale, parlamentare e referendario si trasformi in confronto armato. Le tensioni tra partigiani di Mosca, partigiani di Kiev e partigiani di se stessi (i tatari) sono già oggi molto alte; se Putin dà prova di non saper tenere i suoi, non potranno che aggravarsi ulteriormente.
Da questo scenario, però, neppure gli Stati Uniti escono vincitori. Razionalmente parlando, il loro interesse nella vicenda – mettere un muro tra russi ed europei – sarebbe soddisfatto. Ma comporterebbe dei rischi collaterali: non in Ucraina, ovviamente, ma in Iran. Se la situazione s’avvita in una spirale di tensioni e di recriminazioni, l’ipotetico gioiello della corona di Obama – rifare dell’Iran l’alleato chiave in Medio Oriente – potrebbe andar perso per sempre.
Un’eventuale umiliazione dell’Ucraina – che a metà degli anni Novanta ha rinunciato alle sue armi nucleari sotto l’egida degli Stati Uniti e della Russia – ridarebbe necessariamente fiato ai nemici dell’appeasement a Teheran, indebolendo le precarie posizioni di Rohani, e rafforzando indirettamente l’influenza russa sull’Iran. Anche il presidente americano perderebbe la sua partita strategica.
Razionalmente parlando, solo la Cina avrebbe interesse a una crisi in cui, al tempo stesso, tutti i suoi competitori strategici più importanti – gli Stati Uniti, la Russia e l’Europa – s’indeboliscono reciprocamente. Forse proprio per questa ragione, Pechino fa profilo bassissimo, e cerca di non farsi vedere sulla scena del delitto.
Insomma, le locomotive sono già per via. Per ora avanzano lentamente, ma non è dato di sapere se i macchinisti siano ancora al loro posto.