Sul comportamento del presidente russo verso l’Ucraina, Ivan Petrovič Pavlov, premio Nobel nel 1904 per la medicina e la fisiologia, ci saprebbe dire più di ogni analista di politica internazionale. Pavlov è passato alla storia per la teoria del riflesso condizionato. Il cane cavia, tuttora visibile imbalsamato nel museo pavloviano di Ryazan, quando sentiva suonare la campanella della pappa salivava dalle papille per il gusto indotto del cibo. Lo scienziato russo l’aveva abituato ad associare suono e ora della ciotola: l’istinto al piacere generava inesorabilmente quella che in gergo sarebbe stata chiamata “secrezione psichica”.
Con rarissime eccezioni (abbiamo vissuto quella di Gorbaciov, durato poco proprio perché non rispettò la regola alla quale i sudditi russi tengono parecchio) i capi (così i russi chiamano quelli che noi chiamiamo governanti) che nei secoli hanno abitato cremlini e palazzi d’Inverno, hanno sempre sanato con minacce e aggressioni le situazioni critiche di confine. E’ in questo modo che la Russia millenaria ha accresciuto territorio e popolazione, messi in sicurezza attraverso dominio o influenza paternalistica. Lo stesso Eltsin vide la sua parabola cadere improvvisamente, per imposizione di Kgb e altri gruppi di potere tradizionalisti, perché non aveva affrontato con piglio adeguato la questione cecena e più in generale del Caucaso. Lo avrebbe fatto il delfino imposto Putin, l’uomo che avrebbe disposto di “inseguire e ammazzare i terroristi fin dentro la tazza del cesso”.
Ci sono ragioni di geopolitica a spiegare questa consolidata posizione del potere russo. Il paese che la esprime è privo di difese naturali (unica eccezione i rigidi inverni) e di mari caldi nei quali mostrare la bandiera con continuità. Rinserrata da sempre nella sua “unicità” di Terza Roma, la Russia ha sofferto invasioni e attacchi da est (mongoli, orda d’oro) e da ovest (svedesi, teutoni, lituani e polacchi, i francesi di Napoleone, i nazifascisti italiani e tedeschi). Da bolscevica, ha subito per decenni il “cordone sanitario” delle potenze liberali e capitalistiche, salvo usarlo a proprio vantaggio invertendone il significato quando, col sacrificio di decine di milioni di uomini, ha vinto la seconda grande guerra e ha frapposto alla minaccia Nato i paesi “fratelli” del patto di Varsavia e del Comecon. Con Putin la Russia è andata ancora oltre, assumendo l’ideologia del “lebensraum”, generata dal nazismo per garantire spazio vitale al Reich germanico. Accusa, da bugiardo, gli Ucraini di violare gli interessi nazionali russi e mettere a rischio i russofoni di Ucraina, e si erge in difesa di entrambi. In realtà vuole che quella terra non vada ad ovest.
Gli Ucraini non intendono onorare con la propria libertà il senso millenario di insicurezza della Russia. Chiedono di svilupparsi come nazione e operare in autonomia le proprie scelte, come è nel diritto di ogni stato indipendente e riconosciuto, membro delle Nazioni Unite. Bisognerà farlo capire a Putin, così che smetta di agitare il bastone di una forza che è già andata oltre il tollerabile.
Hanno ragione americani e tedeschi: l’attuale gruppo dirigente di Mosca documenta una cultura politica e statuale da Ottocento, quando l’autorevolezza di uno stato veniva dall’estensione di territorio e popolazione, e dalla capacità di mostrare i muscoli. Putin, che, come ogni autocrate che si rispetti, ama esibirsi in attività marziali, probabilmente non ha chiara la differenza tra essere grande e soltanto grosso.
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