Nel febbraio 2005 sulla rivista accademica Oikonomia pubblicavo un saggio a commento della vittoria elettorale di Viktor Yushchenko. Sostenevo, tra l’altro, che la transizione politica avviata da quella presidenza avrebbe imposto all’Ucraina la definitiva scelta tra Ue e Russia. Avevo maturato la convinzione dopo aver molto viaggiato a Kiev e altre zone ucraine. Più in particolare dopo aver fatto da relatore a un seminario accademico, a Kiev, sul dilemma di quella terra: tornare all’abbraccio del dispotismo orientale russo o virare con decisione verso l’Ue.
Il seminario cui faccio riferimento, roba di dieci e passa anni fa, non aveva dato risposta al dilemma, né risposta la forniranno le lotte di questi mesi e gli scontri sanguinosi di questi giorni. Si tratta di un irrisolvibile rompicapo che, purtroppo per gli Ucraini, non potrà essere risolto senza il consenso, esplicito o tacito, di Mosca, benché gli Ucraini, come i vicini che hanno sperimentato le unghie dell’orso russo, aspirino all’alleanza con l’Unione Europea. Il rapporto tra Ucraina e Russia è antico e profondo, obiettivamente difficile da recidere. Anche in questo aiuta un ricordo personale. Abitando a Mosca durante l’agonia dell’Urss, ricordo come l’unica notizia che creasse autentica angoscia nella locale opinione pubblica, fosse la dichiarazione d’indipendenza di Kiev del 24 agosto 1991, definita inspiegabile e inaccettabile. Peraltro, problema nel problema vivono in Ucraina tantissimi russi, e la parte di territorio industrializzato e minerario collocata ad oriente viene da molti impropriamente definita “russa”…
Gli Ucraini, specie i giovani che drammaticamente stanno rischiando la vita per una patria libera, vorrebbero riprendere il filo interrotto della loro storia. Ripartire dallo stato slavo di Kijev distrutto nel 1240 dai mongoli e diviso tra Magiari Lituani e Polacchi, dopo i secoli di rapporto con il neonato stato russo generato ad inizio millennio dal Rus ucraino. Devono invece fare i conti con il peso dell’”Unione volontaria” di Perejaslav del 1654 con il regno di Moscovia, e di tutto ciò che ne è derivato, dal trattato d’Andrusovo del 1667 (spartizione dell’Ucraina, alla fine del conflitto tra Polonia e Russia, con Smolensk e Kiev transitate in mani russe), all’assimilazione condotta da Caterina II (conquista di Crimea) e da altri zar, alla russificazione demografica e culturale dell’800 e ‘900, al genocidio bolscevico dei contadini. I russi non hanno mai considerato gli Ucraini una nazione, ritenendoli dei sempliciotti “piccoli russi” di confine. Al contrario i nazionalisti ucraini guardano ai Russi come usurpatori della tradizione slava e ortodossa incarnata nell’antica Rus di Kijev, dove fioriva anche la poi repressa tradizione uniate con la Chiesa di Roma. Nelle parole dello storico britannico Seton-Watson: “I moscoviti, secondo questi storici, sono una mescolanza razziale di finni, slavi e tatari, usurpatrice del nome russo”.
In questo scenario, il nazionalismo ucraino è consapevole che se perde questa mano, va alla deriva bielorussa, nel gorgo del triangolo delle Bermuda eurorientale (l’alleanza politico-economico e militare tra Mosca, Kiev e Minsk) dalla quale rifugge con tutte le forze. Gli Stati Uniti, manovrando il dollaro, stanno colpendo il rublo per diminuire la capacità munifica dell’economia moscovita manifestata con prestiti ed elargizione di energia e materie prime. L’Europa non va oltre la denuncia e larvate minacce di sanzioni commerciali, nulla di fronte all’emergenza che tocca la frontiera tra due concezioni di uomo e società. In rete abbiamo tutti visto il suonatore di cornamusa che, a Kiev, camminava con sguardo deciso tra veicoli in fiamme, spari di agenti, pietre di dimostranti. Può essere l’icona di una dignità che abbiamo il dovere di difendere.