Al di là di fattori e personnaggi specifici del contesto del paese, le manifestazioni che scuotono la Thailandia da oramai più di due mesi evidenziano delle contraddizioni di fondo del sistema democratico per cui non sembra esistere alcuna medicina infallibile, ma solo delle soluzioni ad hoc di volta in volta.
Per la Thailandia, alcuni nodi potrebbero venire al pettine con le elezioni di domenica prossima, ma a patto che si riesca ad organizzarle, viste le incerte condizioni di sicurezza in cui versa il paese al momento. Il bilancio delle proteste è infatti ad oggi di dieci morti, dozzine di feriti e vari edifici governativi occupati dai manifestanti. Dalla settimana scorsa è in vigore lo stato d’emergenza su Bangkok e sulle province circostanti, che dà il diritto alle forze dell’ordine d’imporre il coprifuoco, di detenere dei sospetti senza capi d’accusa, di censurare i media, di bandire tutti i raggruppamenti di più di cinque persone e di dichiarare delle aree off-limits.
I manifestanti chiedono l’annullamento delle elezioni del 2 febbraio prossimo e le dimissioni del primo ministro Yingluck Shinawatra, accusata di fare da marionetta per suo fratello, l’ex premier Thaksin Shinawatra, in esilio volontario a Dubai per sfuggire a una condanna per corruzione del 2008.
Il partito degli Shinawatra, il Pheu Thai Party (PTP), è criticato dai suoi detrattori per le sue misure populiste, come la decisione del governo Yingluck di acquistare il riso dei coltivatori thai a un prezzo fisso, indipendente dall’andamento del mercato. Una misura non poco arrischiata che ha poi costretto il governo a ricorrere a un prestito in banca per poter pagare alcune centinaia di agricoltori che, in collera per non aver ricevuto i compensi in tempo, minacciavano di unirsi alle manifestazioni anti-governative.
Se questa storia del riso sa proprio di populismo, in altre politiche del PTP, come l’assistenza sanitaria a basso costo e i prestiti bancari più accessibili per tutti, si potrebbe invece leggere un’autentica volontà di aiutare i più disagiati. Tuttavia, secondo Sophie Boisseau du Rocher, esperta del Sud-est asiatico presso l’Asia Centre di Parigi, “Al di là dell’interesse per lo sviluppo sociale, Thaksin ha soprattutto capito l’interesse elettorale di questa pratica. Prima i voti dei più poveri venivano “comprati” al momento delle elezioni. Grazie a quest’azione pubblica più focalizzata sugli aiuti concreti, il voto è già aggiudicato senza neanche dover ricorrere alla compravendita!”
A differenza della base elettorale degli Shinawatra, rurale e concentrata nel nord del paese, i manifestanti appartengono piuttosto alla classe cittadina medio-alta. A capo delle proteste di piazza c’è Suthep Thaugsuban, ex membro del Partito Democratico. Coinvolto in uno scandalo terriero nel ‘95 e in parte responsabile della violenta repressione delle manifestazioni pro-Thaksin del 2010 in quanto vice premier all’epoca, anche lui non sembra essere uno stinco di santo.
“Suthep è un brillante oratore,” dice Boisseau du Rocher, “Oggi riempie i titoli dei giornali, ma con buona probabilità domani verrà dimenticato. Non è lui che farà evolvere le mentalità, anche se riesce con successo a catalizzare il malcontento [generale]. […] Perché Suthep non ha proposto nulla quando era lui al potere?”
E cosa propone Suthep ora, al posto delle elezioni del 2 Febbraio? La creazione di un “comitato popolare” non eletto che effettui delle riforme contro la corruzione e la compravendita di voti. Eh già, perché, come fa notare Boisseau du Rocher, dato che la popolazione rurale costituisce ben il 64% degli abitanti del regno, assicurandosi questa base elettorale, gli Shinawatra hanno in mano l’asso piglia tutto e possono star sicuri di vincere alle prossime urne. Quindi l’ostacolo per il cambiamento, per i manifestanti, sta nelle elezioni.
Solo che la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica tramite le elezioni è appunto il cuore del sistema democratico. È il cuore e ne è al contempo il tallone d’Achille, dato che proprio al momento delle elezioni le compravendite di voti e le strategie populiste danno i loro frutti. Delle elezioni viziate da populismi e clientelismi non si svuotano di tutto il loro senso? Non sarebbe allora preferibile un governo di saggi, seppur non eletto? Ma al contempo, rimpiazzare un governo regolarmente eletto e che gode di ampio sostegno popolare, con un organismo non eletto non equivarebbe a un tentativo di sabotaggio della democrazia?
La Thailandia sembra trovarsi di fronte al vecchio problema dell’uovo e della gallina: fare le elezioni democratiche prima per avanzare con le riforme poi o fare le riforme prima per avanzare con la democrazia poi?
C’è chi dice che l’unico modo per uscirne è battere il PTP sul terreno elettorale, magari con una coalizione tra il partito democratico e altri partiti minori. C’è chi dice che si dovrebbe cominciare a pensare a decentralizzare il governo del paese, rendendo le regioni più autonome ma unite sotto la monarchia.
In questa contraddizione, la Thailandia concretizza quella sorta di difetto di fabbrica del meccanismo democratico, in cui rischiano d’infilarsi i populismi. “Come restare democratici senza far ricorso al voto democratico?” si domanda Boisseau du Rocher. “È un problema avvincente che chiaramente non riguarda solo la Thailandia ma molti altri paesi in corso di transizione politica.” E viene da pensare all’Italia. La stampa internazionale ha già fatto il paragone tra Thaksin e Berlusconi; come esperimento mentale si potrebbe anche provare a sostituire all’acquisto statale del riso la tassa sulla casa.
Secondo Boisseau du Rocher, la Thailandia, con la sua crisi attuale, costituisce “un formidabile laboratorio, a patto che non venga fagocitata dagli interessi di parte.” E aggiunge, “Il vero pericolo per il futuro della democrazia in Thailandia è il disinteresse per la cosa pubblica perché nessuno è in grado di difendere il bene comune.”