Realizzando quanto previsto negli accordi di Naivasha del 2005 tra governo di Karthum ed Esercito/Movimento di liberazione del popolo sudanese (Spla/M), oggi quattro milioni di Sud Sudanesi si esprimono sulla propria secessione. In simultanea, città e territori di Abyei decidono sull’appartenenza al Sud Sudan. Si tratta di due voti di grande rilevanza anche per la politica e l’economia internazionali.
Dalla fondazione, nel 1956, il paese africano ha espresso un percorso tormentato, ponendosi reiteratamente al centro delle crisi, fino a guadagnare la prima fila tra i rogue states della politica estera statunitense. Il Sudan gioca la carta dell’unità araba e del panislamismo. Soffia sul fuoco dei conflitti collegati allo sfruttamento del Nilo, le cui acque alimentano le speranze di vita di dieci paesi africani ma premiano Egitto e Sudan. Attua decenni di ogni e qualunque tipo di guerra africana (etnica, religiosa, tribale, tra signori della guerra, di rapina delle materie prime nazionali), accumulando milioni di morti, interi territori minati in funzione anticarro e antiuomo, milioni di senzatetto, malattie endemiche, fame, generazioni di fanciulli combattenti e analfabeti. Ospita e alleva futuri capi del terrorismo islamico globale, il più famoso Osama bin Laden. Tra i primati-paese finiti nella bacheca della storia, un presidente, l’attuale Omar Hassan al-Bashir, su cui pende il mandato di cattura del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, assassinio, sterminio, stupro; guerre di tutti contro tutti con i casi eclatanti del Darfur (Sudan occidentale) e Sud (ventidue anni, due milioni di morti, quattro di profughi).
Il voto odierno presume di separare il meridione cristiano e animista, da un Nord che dal 1998 ha imposto la sharia, o legge coranica, come base di un regime liberticida e di rapina. Il nuovo stato, con capitale Juba e presidente Salva Kiir, dovrebbe, nella volontà delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, sigillare l’epoca dei conflitti etnici e religiosi, aprendo alla collaborazione tra i due stati indipendenti. Gli osservatori propendono per previsioni meno ottimistiche, in linea con quanto dichiarato dal portavoce del Dipartimento di Stato P.J. Crowley a metà dicembre: “Il Sudan sarà la più grande emergenza per la nostra politica estera nel 2011”. Scottati dall’incapacità a prevenire la carneficina in Rwanda, in particolare gli Stati Uniti appaiono vigili, mobilitando anche risorse private come la fondazione Not On Our Watch, Google, Enough Project, Harvard Humanitarian Initiative, e personaggi dello star system come George Clooney e Mia Farrow.
I rischi sono evidenti. Il Nord, nel più lungo e proficuo periodo di crescita economica dall’indipendenza, difficilmente accetterà di privarsi dei miliardi di dollari della rendita petrolifera, localizzata nel Sud: concordare ripartizione e confini sarà difficile. Il Sud è preda di corruzione, violenze intestine, divisioni etniche e tribali, in un contesto di povertà e arcaismi pastorali e agricoli, e dovrà reintegrare le centinaia di migliaia di profughi in rientro. L’estremismo islamico avrà gioco facile ad agitare rivendicazioni e frustrazioni del Nord e della popolazione islamica del Sud. I dividendi della pace dovrebbero convincere a non scatenare un conflitto che non potrebbe non coinvolgere il Corno, l’est sudanese, la regione equatoriale. Ne risentirebbero paesi come Tanzania e Kenya, la Cina troverebbe spazio d’azione, il Sudan ne uscirebbe a pezzi. Basterebbe ragionare, certo, e si eviterebbe di ripiombare nel caos, ma ci vorrebbero protagonisti disposti a farlo.