Diversi fattori stanno lentamente modificando orientamenti consolidati di politica estera dell’Arabia Saudita, con ricadute attese sull’intero assetto strategico del Golfo. Due si impongono all’attenzione: i sommovimenti popolari e i mutamenti di regime politico in Medio Oriente, l’indipendenza energetica garantita agli Stati Uniti dagli scisti bituminosi. Dopo ottant’anni di stretta alleanza con Washington, la dinastia al potere è spinta a un inatteso processo di diversificazione che ha fatto registrare, tra l’altro, il coinvolgimento diretto nel teatro di guerra siriano e l’offensiva di attenzione verso oriente.
L’imbroglio siriano, visto dall’Arabia Saudita, si presenta come un’opportunità per entrare nel grande gioco delle relazioni internazionali nel segno di nuova autonomia, con il possibile risultato di ricollocazione delle priorità di alleanza della prima potenza sunnita. Non è un mistero che nell’incontro di fine luglio a Mosca, il principe Bandar Bin Sultan, capo dei servizi di intelligence estera e uomo di punta per la Siria del re Abdullah, abbia offerto a Putin un trade off inimmaginabile in tempi anteriori alla cosiddetta primavera araba. Riyad comprerebbe dalla Russia armi per 15 miliardi di dollari e non ostacolerebbe le mire russe a consolidarsi in maggior fornitore di gas naturale all’Europa, contro il cambio di atteggiamento russo verso Assad che si tradurrebbe innanzitutto nella rinuncia al veto, in Consiglio di sicurezza, sulle misure anti-Assad. Non è escluso che anche grazie al lungo colloquio con Bandar, Putin abbia spinto Assad a rinunciare alle armi chimiche, in un gioco che potrebbe garantirgli l’insperato ritorno, almeno diplomatico, nel Golfo.
E’ evidente che Obama paga la sconsiderata invasione bushista del 2003 in Iraq, che volle prescindere dagli effetti politici, sulle popolazioni coinvolte, di 1300 anni di scisma sciita. L’aver rimosso il regime cuscinetto che, grazie al laico/sunnita Saddam, garantiva Riyad dal contatto diretto con la teocrazia iraniana, ha consegnato la dinastia saudita a interrogativi esistenziali sulla capacità statunitense di capire la regione e stabilizzarla. L’attuale presidente ha aggiunto del suo. Le sollecitazioni alle società arabe per aperture su libertà civili e diritti democratici, non hanno contribuito a democratizzare ma a destabilizzare, alimentando vuoti di potere che ora tentano la Russia. Il modo come ha abbandonato al suo destino il fedele Mubarak senza ostacolare l’ascesa in Egitto dei Fratelli musulmani, la neutralità mostrata nel braccio di ferro ora in corso al Cairo, hanno fatto suonare un campanello d’allarme per la monarchia che, in agosto, con Emirati arabi e Kuwait, ha promesso 12 miliardi di dollari di assistenza finanziaria al regime militare egiziano, spaventando Washington. Perché con i sauditi sono molti i regimi del Golfo a soffrire l’“horror vacui”, cercando una potenza, quale essa sia, per stabilizzazione e consolidamento regionali.
Ragionando con esperti di settore in Arabia Saudita, risulta chiara la consapevolezza della difficoltà tecnica di coniugare l’eventuale equipaggiamento sovietico in arrivo, con le quarantennali forniture di armi statunitensi, ma si rileva soprattutto l’aspetto politico-diplomatico dell’offerta recapitata all’ex kgb Putin dal capo dell’intelligence saudita. Al tempo stesso si ironizza sul fatto che intanto le milizie di Assad continuino a combattere con armi russe i ribelli foraggiati da Riyad. Si conclude che, però, se Washington non si mostrasse capace di virare drasticamente, il cammino verso est dei sauditi potrebbe divenire irrinunciabile. Manco a dirlo, i sauditi attendono di vedere cosa Obama riuscirà ad ottenere da Tehran sul nucleare.
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