L’Europa politica
Son settimane, mesi e anni che l’Europa politica si conferma fragile sulle grandi questioni del mondo. Tutti in ordine sparso sulla crisi in Mali. Approcci diversi sulla crisi in Siria e sul nucleare iraniano. Divergenze che formule e linguaggi della più raffinata diplomazia possono nascondere e smorzare. Ma non annullare. Neanche l’Europa economica e sociale sta tanto bene. Disoccupazione govanile ed euro debole. L’euroscetticismo che monta in tutto il continente. Al sud e sulle coste mediterranee l’Unione Europea (UE) appare ancora tutta regole e austerità. Aggiustamenti e riforme strutturali è la ricetta suggerita ai Paesi dalla finanza allegra. Binomio che impone sacrifici e definisce contenuti, tempi e modi di politiche economiche e fiscali nazionali. I Paesi membri sotto scrutinio possono solo abozzarle. In attesa del placet di Bruxelles. E di istituzioni comuni ancora dotate di scarsa leggitimità democratica.
Eppure, proprio dalla capitale dell’UE arriva in questi giorni una buona notizia. Che siamo lieti di segnalare. Se ne parla poco, per ora, ma nella primavera del 2014 si terranno in tutta Europa le prime elezioni del parlamento europeo (PE) sin dall entrata in vigore del trattato di Lisbona (1 dicembre 2009). Documento a molti sconosciuto, ma che puntò proprio sul rafforzamento del ruolo dei parlamenti nazionali e del PE per democratizzare un po’ di piu i processi decisionali di Bruxelles. Al PE il trattato di Lisbona ha assegnato il potere di eleggere il capo della commissione UE. Non più quello – poco edificante per un’assemblea rappresentativa – di approvare semplicemente la designazione fatta daI governi. Fino agli anni scorsi, la scelta del presidente della Commissione è stato frutto di intese opache tra gli stati e le burocrazie nazionali ed europee. Col minimo della trasparenza. E pochissime consultazioni. Grazie a Lisbona, in teoria, i governi d’ Europa dovrebbero essere chiamati a considerare il risultato elettorale del continente, ovvero la composizione politica del Parlamento che sarà eletto dai cittadini europei nel maggio 2013.
La notizia che un po’ ci solleva è che proprio in vista di quelle elezioni, il gruppo dell’alleanza progressista dei socialisti e democratici europei, ha annunciato l’apertura delle primarie per i candidati alla presenza della Commissione UE. Gruppi politici nazionali membri dell’alleanza saranno chiamati ad indicare dai prossimi giorni, ed entro la fine di ottobre, una serie di candidati. Un congresso e delle primarie da svolgersi entro il febbraio 2014 serviranno ai socialisti e democratici europei per indicare il front-runner – dotato di un consenso popolare nei vari Paesi – e definire un manifesto comune per la campagna elettorale e le consultazioni del prossimo maggio. Quello dei socialisti europei è un tentativo, nobilissimo, di rafforzare l’Europa politica. Gettando piccole basi per la creazione di un sistema politico europeo. Sulla carta, i partiti nazionali dovrebbero essere chiamati a fare campagna su un programma condiviso. A popolarizzare nell’elettorato il proprio candidato. Dovranno cioè parlare d’Europa. Di quello che l’Europa deve e non deve fare. Riformare o conservare. Indicare la diversità e l’originalità della propria proposta politica europea. Rispetto a quello degli altri partiti e movimenti.
Sarà una prova importante per molti di Paesi, tra cui l’Italia. Ma sarà anche un’opportunità, ancora troppo complessa, per europeizzare dibattiti politici maledettamente nazionali, limitati alle beghe provinciali. Di una provincia che, un poco alla volta, ha ceduto potere e sovranità ad istituzioni comuni, europee. E ad una nuova capitale. Saranno però ancora fattori fortemente nazionali – e di relazioni tra gli Stati membri – a condizionare le elezioni del maggio 2014 e, in particolare, la competizione tra possibili candidati alla guida dell’esecutivo europeo. Dalle prime consultazioni informali tra i gruppi socialisti è spuntato il nome di Martin Schulz, attuale presidente del Parlamento (si proprio lui, quel Martin Schulz cui Silvio Berlusconi diede del kapò nazista). Una candidatura che potrebbe rafforzarsi nel caso in cui i socialdemocratici tedeschi venissero imbarcati in un governo di grande coalizione presieduto dalla leader moderata Angela Markel. In altre parole, Berlino, desiderosa di assumere un ruolo guida ancora più accentuato nella definizione dell’equilibrio, del rigore e della stabilità economica e finanziaria dell’Unione potrebbe decidere di affidare ad un socialdemocratico di ‘’casa” un ruolo chiave come quello di presidente della Commissione.
Restano dubbi sull’opportunità di una mossa che rischia ulteriormente di consolidare i sentimenti anti-europeisti dei conservatori inglesi – pronti a trascinare Londra fuori dall’Unione – o rafforzare l’anti-politica e la destre radicali. Nonchè spiazzare molti partiti e governi mediterranei, insofferenti e stanchi dell’austerità, il marchio di fabbrica dell’Europa che vuole Berlino. E che in molti non vogliono più. Ma non solo. Il rischio più grande di grandi coalizioni e larghe intese in formato europeo sarebbe quello di assecondare, ancora una volta, la percezione di un modello di co-gestione degli affari europei tra le grandi famiglie politiche del continente, i socialisti-democratici (progressisti) e le forze popolari d’ispirazione cristiana (moderati e conservatori). Come se l’Europa non avesse colore politico. E non ci fosse neppure lo spazio politico per scelte e proposte tra loro diverse ed alternative. Come se la vita degli europei fosse pura questione amministrativa e contabile, gestibile, agnosticamente, da destra e da sinistra. Con il solo aiuto dei tecnici e della burocrazia di Bruxelles.