Rivendicata dal gruppo fondamentalista di Al-Shabab, l’azione terrorista al mall Westgate di Nairobi, Kenya, conferma quanto era stato scritto nei giorni scorsi su questa column. La tragedia costata la vita ad oltre 60 persone indicherebbe le difficoltà e il relativo indebolimento del gruppo terrorista, piuttosto che il suo rafforzamento.
Radicato ormai da qualche anno in Somalia, l’organizzazione sta cercando di consolidare i suoi legami con il “franchsing” di Al-Qaida. Nondimeno, in due anni di operazioni militari condotte dall’Unione Africana e dalle truppe di Kenya ed Etiopia a Mogadiscio e nelle zone meridionali della Somalia, gli islamisti hanno perso molte delle loro tradizionali roccaforti. L’attacco allo shopping mall di Nairobi è il tentativo di allargare la minaccia di Al-Shabab. ed esportarla anzitutto nei Paesi della regione protagonisti dall’azione militare di stabilizzazione, Kenya ed Uganda in primis. Paesi tutt’altro che stabili.
Il primo segnato da una massiccia presenza di rifugiati somali e ancora sconvolto dalle violenze elettorali del 2008, nonchè dal rischio di tensioni inter-etniche; il secondo alla prese con milizie separatiste nel nord del paese. In entrambi i Paesi la popolarità della presenza di truppe in Somalia appare in caduta libera.
Proprio un attentato nell’estate del 2010 nei pressi di Kampala, la capitale ugandese, aveva colpito un bar nella sua massima capienza durante la visione di un partita dei mondiali di calcio. A quell’attentato ne erano seguiti altri, di minore entità, soprattutto nelle località costiere del Kenya, popolate di turisti occidentali. Tutti passati inosservati presso un’opinione pubblica internazionale piuttosto distratta. L’attacco a Nairobi era dunque nell’area da tempo.
Da diversi mesi gli Al-Shabab si sono riorganizzati in nuove aree della Somalia e la strategia perseguita è quella della guerra asimmetrica. Un dejà vu delle recenti esperienze fondamentaliste in Iraq e Afghanistan. Attacchi terroristi mirati, tramite piccole cellule, contro i civili, le forze di sicurezza locali e i rappresentanti del nuovo governo federale formatosi nell’estate 2012. Ma soprattutto contro le sedi e i simboli della presenza internazionale, il compound delle Nazioni Unite a Mogadiscio e le nuove rappresentanze diplomatiche dei Paesi membri, che, un poco alla volta, hanno cominciato a tornare in Somalia per riaprire le rispettive ambasciate (se ne parla poco, ma l’Italia è tra questi).
Colpisce la sopresa di chi ha mostrato stupore sulla possibile identità occidentale di alcuni dei presunti attentatori. La Somalia è un Paese senza stato da oltre due decenni. Tanti somali e figli di somali crescono emarginati, spesso con lavori precari e scarso accesso all’educazione, nelle periferie dell’occidente. Non hanno mai visuto in Somalia. Ma sono cresciuti nella retorica che vuole il loro Paese d’origine vittima di complotti internazionali e di intereferenze esterne. Una retorica che ha prutroppo dei punti di verità. Forti e spiacevoli. Basti pensare alla guerra diplomatica segreta sulle risorse della Somalia. O all’intervento militare dell’Etiopia del 2006, movente principale per l’arruolamento alla causa di Shabab. Un arruolamento fondato sulla chiamata alla guerra santa contro l’invasore cristiano-ortodosso, il governo di Addis Abeba, storico nemico della nazione somala. Nè si può dimenticare quanto la Somalia, sebbene assai meno della Palestina, sia ancora una causa popolare di mobilitazione radicale tra tutte le masse di giovani diseredati del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale e di quella orientale.
Insomma, ci sono ancora tutti gli ingredienti per una miscela esplosiva. La speranza è che la Comunità internazionale impedisca ad Alshabab di allargare i confini della sua chiamata alle armi. Di consolidare i suoi legami con il terrorismo islamico internazionale per compensare le gravi perdite subite in Somalia e rilanciarsi con forza in Africa orientale. Il rischio più grande è quello della formazione di un’arco terrorista che parta dalle spiaggie della Somalia e raggiunga, attraverso la regione del Sahel, le coste dell’Africa occidentale. Una questione che sarà forse meno interessante della Siria. Ma di cui varebbe la pena occuparasi più a fondo.