Apparentemente, il G-20 di San Pietroburgo non è servito a molto. Difficilmente sapremo quali e quanti tentativi siano stati fatti per ridurre le distanze tra Russia e Stati Uniti sulla questione siriana, e solo il prossimo avvenire ci dirà se sono stati raggiunti accordi di nascosto dalla grancassa mediatica.
Fatto sta che le delegazioni sono ripartite dalla città baltica sulle stesse posizioni su cui vi erano arrivate. Con toni magari un po’ più aspri, battute un po’ più velenose: insomma, le solite manfrine di quando si deve far cadere sull’avversario la responsabilità di un insuccesso.
Da quello che succederà di qui a qualche giorno, capiremo se ha prevalso la politica o la caponaggine stizzosa di alcuni leader sproporzionatamente inadeguati.
È forse superfluo ricordare che i siriani veri, quelli che muoiono a grappoli tutti i giorni – di gas, piombo, calcinacci o vetri – o che fuggono dalle loro case in fiamme, sono solo le comparse accidentali di un altro dramma, che non si gioca in Siria, e la cui posta non li riguarda affatto: se Mosca avesse voluto, la guerra in Siria sarebbe finita da un pezzo; se Riyad, Doha, Teheran e Ankara fossero state meno frettolose nel voler scatenare le une contro le altre i loro pedoni di descamisados armati fino ai denti, forse non si sarebbe arrivati a questo punto. E se Washington e Parigi fossero realmente preoccupate delle sorti del popolo siriano, di certo non proporrebbero un’azione che, in assenza di obiettivi dichiarati e di alleati solidi e affidabili, sembra solo destinata ad aggravare la situazione (e con essa, va da sé, le sorti del popolo siriano).
Per questo, torna difficile pensare che non si sia raggiunto nessun accordo. Sarebbe nell’interesse di Mosca non apparire più agli occhi dell’opinione pubblica mondiale come il padrino di un regime che è una lusinga definire sanguinario. Sarebbe nell’interesse di Washington chiudere una partita molto mal vista in patria prima ancora di cominciarla (a condizione di non perderci la faccia), e idem per la Francia. Nel loro piccolo, sarebbe nell’interesse di Teheran, Riyad, Doha e Ankara ritirarsi in punta di piedi da una sfida nata per far sfoggio della loro forza e che sta solo mettendo a nudo le loro debolezze.
Il meccanismo, in apparenza, sarebbe semplice: Obama si fa sfiduciare dal Congresso (come il suo amico Cameron); Parigi si ritira dalla più striminzita coalition of the willing mai esistita; Mosca stringe il morso ad Assad; Teheran si defila silenziosamente; lo stesso fanno Riyad e Doha, e Ankara tira un gran sospiro di sollievo. Oppure: Obama vince la conta al Congresso, fa un paio di tiri dimostrativi su qualche caserma abbandonata, e dice al mondo intero che giustizia è stata fatta; Parigi fa volare due Rafale, che hanno tanto bisogno di pubblicità; Mosca protesta con veemenza, muove una nave, e intanto stringe il morso a Assad; etc. (come sopra).
Malauguratamente, il teatro in cui si rappresentava il dramma era uno dei più inadatti. Il G-20, infatti, è l’assemblea plenaria delle grandi e medie potenze, dove una volta all’anno si fa il pubblico bilancio di tutti i tira e molla per spostare i rapporti di forza a favore degli uni o degli altri. È una fiera un po’ pomposa, dove tutti sono imbonitori di tutti, mercanti e clienti al tempo stesso, e la tendenza a vantare chiassosamente le proprie mercanzie prevale sulla trattativa discreta e misurata. Di fronte a questo parterre, dove gli Stati Uniti siedono in permanenza sul banco degli imputati (anche se nessuno può fare a meno di loro), era difficile, se non impossibile, che Obama facesse pubblicamente marcia indietro.
Certo, esiste quel non-luogo mitico – “dietro le quinte” – dove da sempre si svolge il vero gioco di queste assise vacuamente magniloquenti. Ed è lì, forse, chissà, che le cose sono andate diversamente.
Ma l’impressione che si ricava guardando quello che hanno visto tutti, è che gli Stati Uniti e la Francia escano particolarmente malconci dalla fiera. In larga parte, la loro magra figura dipende dal loro peso reale sulle relazioni internazionali: in declino i primi, e declinati da un bel pezzo i secondi. Ma i rispettivi presidenti ci mettono del loro. L’asfittica coalizione rabberciata da Obama e Hollande è stata definita, in Francia (dove i due terzi della popolazione sono ostili ad ogni attacco, e il presidente tocca indici di impopolarità mai visti nella Quinta Repubblica), «l’axe du mol» – l’asse del mollaccione – in assonanza ad un ben più celebre axe du mal.
È vero che l’unione delle debolezze dei due presidenti più indecisionisti della storia recente dei loro paesi, che si fanno tirare per il naso dai loro ministri, consiglieri, segretari e ambasciatori, e che sbandano paurosamente alla brezzolina leggera delle loro opinioni pubbliche, non rischia di dare il segnale di una ferrea volontà di riprendere saldamente in mano una situazione caotica e sfuggente. Sembra piuttosto il fiacco sventolio di un certificato di esistenza in vita.