Mi sbaglierò senz’altro, ma il voto della Camera dei Comuni che ha messo in minoranza David Cameron sulla questione siriana ha tutta l’aria di essere uno di quegli avvenimenti di cui ci si ricorderà in futuro.
Facciamo l’ipotesi che sia così. Sarebbe, quel voto, l’epilogo di un corso politico cominciato nel 1956, durante il quale il Regno Unito ha sempre seguito la politica estera degli Stati Uniti. Con qualche malumore qua e là, beninteso, e con un soprassalto d’orgoglio tra il 1979 e il 1991. Ma sempre d’orgoglio atlantista, anzi, ultra-atlantista.
Tra le varie ipotesi di “scontro di civiltà” ce n’è una che è poco nota. Lo storico inglese Walter Russel Mead sostiene che la storia del mondo moderno dal Seicento è dominata dal clash of civilizations tra Regno Unito e Stati Uniti da una parte e le altre nazioni europee dall’altra. È un’ipotesi seducente, e in parte vera. Ma ancora più interessante sarebbe la storia del clash tra Stati Uniti e Gran Bretagna, cominciato nel 1776 e conclusosi nel 1956, che resta ancora da scrivere.
La rivoluzione, e poi la guerra del 1812, seguita da uno sciame di tensioni di frontiera col Canada (1837, 1839, 1844, 1867, 1898), dall’appoggio più o meno aperto di Londra ai Confederati, fino alla guerra del 1898, ufficialmente contro la Spagna ma di fatto intesa ad assicurare agli Stati Uniti il controllo degli oceani Atlantico e Pacifico (strategia perfezionata con la legge “affitti e prestiti” che prevedeva il controllo militare americano degli ultimi avamposti francesi e inglesi nell’Atlantico).
I due conflitti mondiali sono due altri esempi di come una guerra serva a combattere i nemici e, al tempo stesso, i propri alleati. Da quei conflitti, oltre alla Germania, uscirono infatti sconfitte anche la Francia e la Gran Bretagna. Roosevelt era convinto (come poi Truman e Eisenhower dopo di lui) che il manifest destiny degli Stati Uniti del XX secolo fosse di distruggere “l’imperialismo” (leggasi: gli imperi coloniali), e in questa missione si sentiva più a suo agio con Stalin che con Churchill. Nel dopoguerra – nel 1947 sulla questione israeliana e nel 1956 in Egitto – gli Stati Uniti e l’URSS furono dalla stessa parte della barricata contro la Gran Bretagna (così come sulla questione indonesiana contro l’Olanda, su quella congolese contro il Belgio e su quella algerina contro la Francia). Anche quando Washington si trovò schierata con Londra – nel 1945 in Grecia e, soprattutto, nel 1953 in Iran – il risultato netto fu di scalzare gli inglesi e prenderne il posto. Si potrebbe addirittura dire, senza sbagliarsi di molto, che l’impegno americano nel Golfo, a cominciare dalla dichiarazione di Roosevelt del 1943, avesse come scopo prioritario di eliminare Londra dalla scena regionale.
La crisi di Suez del 1956 rappresenta il punto di svolta delle relazioni tra le due potenze anglosassoni. Com’è noto, Londra e Parigi concertarono con Tel Aviv un attacco contro l’Egitto allo scopo di riprendere il controllo del Canale, appena nazionalizzato da Nasser. Quando sbarcarono a Port Said, Eisenhower intervenne con mano pesante, ordinando loro di ritirarsi immediatamente. L’URSS appoggiò in maniera ancor più decisa il diktat americano (e forse vale la pena di ricordare che tutto questo avveniva mentre i carri armati sovietici schiacciavano la rivoluzione a Budapest, suscitando le “accorate proteste” di tutte le cancellerie occidentali splendidamente unite nella riprovazione morale).
L’umiliazione di Suez portò a due esiti opposti per Francia e Regno Unito. La prima decise che, siccome nulla poteva più essere fatto sulla scena internazionale contro il volere degli Stati Uniti, allora bisognava far nascere una terza potenza (l’Europa) alternativa agli Stati Uniti. Il gaullismo e la Quinta Repubblica sono la forma politica di quella scelta strategica. Il Regno Unito, invece decise che, siccome nulla poteva più essere fatto sulla scena internazionale contro il volere degli Stati Uniti, allora bisognava sempre e comunque stare dalla parte degli Stati Uniti.
Comincia lì la special relationship di cui si è tanto parlato. Con alti e bassi, è proseguita fino ad oggi, trascinando tra l’altro la Gran Bretagna nella figuraccia irakena. Il voto alla Camera dei Comuni contro l’intervento in Siria segna un’eccezione clamorosa. Forse resterà solo un’eccezione, e nel futuro la si dimenticherà. Forse, invece, segna l’inizio di un distacco dagli Stati Uniti anche del loro più fedele alleato.
Lo shift of power in corso a livello internazionale sta producendo risultati inattesi: i famosi BRICS erano dati per vincenti da tutti i broker fino a pochissimo tempo fa. Ora se ne è meno certi, e gli sguardi si spostano già verso le supposte tigri del futuro, in Africa, in Bangladesh o in Indocina. Quel che resta certo, invece, è il declino americano, la perdita progressiva di influenza degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Le “rivoluzioni arabe”, e soprattutto i sanguinosi epiloghi in Egitto e in Siria mostrano che ormai non passa giorno che qualcuno non volti ostensibilmente le spalle all’America.
E il finto decisionismo mostrato nella difesa della famosa linea rossa ha tutta l’aria di aver solo peggiorato le cose.