Non è prerogativa di questa rubrica fare commenti a caldo. Il nostro compito è proporre una riflessione posata, documentata, e se possibile originale, sui vari aspetti dell’attualità internazionale.
Questa volta, tuttavia, ci consentiamo un’eccezione, dettata dall’urgenza: l’esercito egiziano ha appena caricato un golpe ad orologeria contro il presidente eletto Mohamed Morsi, bomba che dovrebbe esplodere tra un paio di giorni.
Due sono gli aspetti rilevanti da un punto di vista geopolitico: il fatto in sé, e le sue possibili ricadute; e le reazioni a cui stiamo assistendo, in piazza Tahrir e nel resto del mondo.
Il fatto in sé apre tre possibilità: 1) l’esercito, che il governo eletto ha cercato di escludere progressivamente dal potere dopo un controllo assoluto e feroce sul paese durato cinquant’anni, fa la voce grossa per alzare la posta nel suo braccio di ferro con il presidente; 2) l’esercito depone Morsi con un colpo di Stato soft, come quello dei colleghi turchi contro il governo eletto (ma islamista) di Necmettin Erbakan in Turchia, nel 1997; 3) l’esercito depone Morsi ma, invece di uno scenario turco, si apre uno scenario algerino.
La prima ipotesi riporterebbe la situazione a un anno fa: Morsi potrebbe essere costretto a restituire ai militari alcuni dei loro vecchi privilegi, e soprattutto a garantire quel cospicuo gruzzoletto che l’esercito ha accantonato a partire dal 1978, da quando gli americani hanno cominciato a pagarlo perché non combattesse (s’intende, contro gli israeliani).
Se invece si apre uno scenario turco, sono indette nuove elezioni, gli islamisti cominciano una traversata del deserto durante la quale imparano a far politica, e ritornano come trionfatori dopo qualche anno.
Lo scenario algerino è tutta un’altra cosa. I militari interrompono il processo democratico, e i Fratelli musulmani perdono il controllo delle correnti islamiste trattenute fin qui entro i margini della legalità. La guerra civile che ha fatto seguito al golpe in Algeria del 1992 è durata dieci anni e ha fatto tra 60 e 150.000 morti. E la situazione economica in Egitto oggi ricorda assai più quella algerina del 1992 che quella turca del 1997.
La situazione politica, invece, è diversa. Nel 1992, il Fronte di salvezza islamico in Algeria proponeva una purificazione del paese, ma non ebbe mai modo di provare che cosa questo volesse dire: le elezioni vinte col 47,5% dei voti furono annullate, il Fronte sciolto e i suoi capi arrestati. In Egitto, invece, i Fratelli musulmani hanno governato per un anno. Male, certo. Ma dopo un anno, attivisti antigovernativi hanno liberamente solcato il paese per raccogliere firme contro Morsi, e centinaia di migliaia, forse milioni di persone, hanno potuto manifestare liberamente nelle piazze contro il governo. Ci sono stati scontri, la sede dei Fratelli musulmani è stata incendiata, ci sono stati morti. Ma non ci sono stati arresti, torture, spari ad altezza d’uomo: cioè la routine sotto i governi militari.
Morsi ha governato male, perché la politica non s’improvvisa. È stato preso tra i due fuochi dell’esercito da una parte e dei salafiti dall’altra (ma questi ultimi votati da quasi un quarto degli egiziani). Quei salafiti che accusano il presidente di aver fallito per non essere stato islamico abbastanza. Quelli che sono sempre stati convinti che la democrazia è un inganno, e che ora ne avranno la riprova. Quelli che, per instaurare il paradiso in terra, promettono l’inferno. Morsi ha governato male perché la situazione economica è fallimentare, gli antichi protettori dell’Egitto, o meglio: dei militari egiziani – gli americani – non sanno che pesci prendere, e i nuovi protettori qatarioti sono apprendisti stregoni con più soldi che idee.
Le reazioni, infine. I manifestanti egiziani hanno ragioni più che buone per scendere in piazza, ma si sono fatti dettare l’agenda dai militari. Hanno salutato l’annuncio del golpe prossimo venturo con un boato di gioia. Vedremo se, e quanto, in futuro, potranno ancora manifestare e andare in giro a raccogliere firme.
Da noi, il tifo per il golpe dilaga. Nei giorni scorsi, in Turchia, i tifosi dell’antislamismo si erano scaldati le corde vocali. Ora giubilano. Sono gli stessi che in questi giorni hanno spalmato litri di latte e miele sul dolore del Sudafrica che perde il suo Madiba, dimenticando gli spari della polizia sudafricana, l’anno scorso, sui minatori in sciopero, e i 34 morti. Cosa avrebbero detto se Jacob Zuma fosse stato musulmano? Gli stessi tifosi che hanno seguito trepidanti le sorti di Dilma, mentre la sua polizia sparava sui dimostranti, né più né meno che in Turchia.
E poi c’è la democrazia. Divinità virtuosa se vincono i nostri. Demone odioso, se vincono quelli che, per una ragione o un’altra, non ci vanno a genio. Non è una novità, e gli italiani lo sanno bene. Ma segniamocelo, su un pezzettino di carta, da qualche parte. Per capire i prossimi massacri – guerre, colpi di Stato, repressioni – potrà tornarci utile.