Il regionalismo economico, con i suoi annessi politici e di sicurezza, può essere definito come il più innovativo modello proposto al sistema internazionale dagli avvenimenti successivi alla fine del bipolarismo sovieto-americano. La comunità internazionale fatica a rendersene conto, perché ancorata al muffo concetto degli stati nazionali e della loro tradizionale attività diplomatica. Ma lo scatenamento delle energie della società globale non poteva che spingere gli stati tradizionali nel cono d’ombra dell’inadeguatezza rispetto ai nuovi problemi (pacificazione e ricostruzione di “failed states and economies”, cambiamento climatico ed effetto serra, migrazioni e squilibri demografici, guerre commerciali, scontri di religioni e culture, azioni planetarie della criminalità organizzata, paradisi fiscali, etc.) che appaiono gestibili solo alzando il livello della risposta al di sopra delle prerogative nazionali. Risultando insieme troppo elevato e inefficace il piano universalistico delle Nazioni Unite e delle sue agenzie, il livello degli aggruppamenti multilaterali tra stati omogenei e contigui appare come il più consono a rispondere ai problemi che la configurazione tradizionale degli stati nazionali e dell’Onu ribadiscono continuamente di non saper risolvere.
Nel mio libro “Regionalismi economici e sicurezza” (2000) quest’affermazione era corroborata da quanto accaduto nel primo decennio di post-bipolarismo. Arriva alla stessa conclusione un buon testo di Natalino Ronzitti e Joachim Krause, “The EU, the UN and Collective Security. Making Multilateralism Effective”, presentato qualche sera fa a Roma presso la rappresentanza della Commissione europea. Nel dibattito si è sottolineato come il sistema internazionale, in particolare attraverso i comportamenti della superpotenza americana e dell’Onu, si dica impotente a risolvere le crisi, gettando le relazioni globali tra gli stati in una sorta di deriva anarcoide che non promette nulla di buono. Quello che sta accadendo in Siria, dove le cifre di morti e rifugiati raggiungono picchi scandalosi nell’indifferenza della comunità internazionale, è solo il punto più evidente dell’impotenza che ammorba ogni altro teatro di crisi. Foreign Policy l’ha sbattuto con brutalità sulla copertina del numero in edicola (“How not to win a war”), illustrando nel suo “special report” come, tra Stati Uniti e comunità internazionale, si sia fatto di tutto al fine di “getting it wrong”. La constatazione è facilmente estendibile all’economia, con l’incapacità del sistema di rispondere ad una crisi economico-finanziaria tuttora in grado di cacciare la globalizzazione in un vicolo cieco.
Washington e Onu hanno iniziato a scoprire l’efficacia degli strumenti regionali nelle riposte di sicurezza politica, utilizzando Nato, Unione Africana, Lega Araba in teatri di crisi. Non hanno fatto lo stesso verso i bisogni di sicurezza economica e finanziaria, probabilmente perché avrebbero dovuto dare riconoscimenti “eccessivi” al modello dell’Unione Europea, e sospingere Cina e Giappone a muovere le fila del regionalismo asiatico, bloccato nel ridotto del sud est (Asean), tirandone poi le conseguenze in ambito di riforma del Consiglio di Sicurezza e di Banca Mondiale.
In “The Second World Empire and Influence in the New Global Order”, Parag Khanna, ascoltato consigliere di Obama, suonava nel 2008 la campana del declino statunitense, rispetto a Cina ed Europa. Un modo di evitarlo è, per Washington, di uscire dalla cultura dell’exceptionalism e riconoscere le virtù del regionalismo. Bisognerà pure chiedersi perché l’Europa, con tutti i suoi limiti, detenga il miglior welfare e il più alto tasso di democrazia, abbia risollevato i paesi post comunisti, non faccia guerre e finanzi il 40% del bilancio delle Nazioni Unite.
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