Anomalo fin quasi al suo ultimo respiro, Massimo Messina Denaro. In un “pizzino” scrive: “Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato. Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie”. Anomalo e arrogante. Nessun boss mafioso, prima, era giunto a mettere in discussion, cosi’ platealmente l’istituzione Chiesa.
Monsignor Angelo Giurdella, vescovo di Mazara del Vallo replica: “Conosciamo bene le dichiarazioni di Messina Denaro, che ha definito la Chiesa piena di corrotti. Sono dichiarazioni che si commentano da sé”. Parole di sobria, pacata severità. “In questo momento noi come Chiesa stiamo dalle parti delle vittime…anche la comunità ecclesiastica deve avviare, per liberare questo territorio dalla cultura della sopraffazione, della prepotenza, della logica del più forte”. Pare inequivocabili: “Dobbiamo iniziare dalle famiglie, dalla scuola per scrollarci di dosso questo peso che ci portiamo da parecchi anni…questa piovra che ci tiene sospesi e che non ci permette di vivere”.
Una netta e rinnovata condanna della mafia e dei mafiosi. Già il 4 settembre 1982 il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, durante la celebrazione dei funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro con una clamorosa omelia denuncia, citando Tito Livio: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur“. Poi, a beneficio di chi non conosce il latino, sillaba: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto. Ma Palermo, povera Palermo”.
Otto mesi dopo, il 9 maggio, il grido di Giovanni Paolo II contro la mafia nella Valle dei Templi ad Agrigento. Un anatema. Il Papa arriva in una Sicilia sconvolta dalle guerre di mafia: oltre 150 morti. È il grido di un pastore e di un profeta, culmina con uno ieratico: “Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
La Cosa Nostra di Totò Riina si vendica il 15 settembre 1993 alle 20,40. Don Pino Puglisi parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, ha appena compiuto 56 anni. È davanti al portone di casa. Qualcuno lo chiama, si volta; un colpo di pistola in pieno viso…da sempre impegnato con le parole e l’esempio concreto nel cercare di strappare i giovani dal gorgo mafioso. Tragico errore da parte della Cosa Nostra. Il danno per la mafia è enorme, don Puglisi diventa il simbolo di un martirio e un esempio.

Non è stato sempre così. Non sono mancati uomini di chiesa collusi, quando non proprio mafiosi; si possono per esempio citare i frati estorsori del convento di Mazarino. Nel gennaio del 1961 ne scrive Leonardo Sciascia:“…la banda fece oggetto dei ricatti due persone anziane che avevano bambini…Terribile e sottile accorgimento psicologico quello di minacciare un padre anziano nella vita di un bambino, di un figlio che ha appena tre o quattro anni di età. E poiché uno dei padri resisteva al ricatto, un giorno uno dei monaci, incontrandolo insieme al bambino, questo atroce complimento pronunciò – “Quant’è bello! Pare vivo”. – che voleva dire il bambino essere già morto, per il fatto che il padre non pagava il ricatto, e soltanto illusione era il crederlo vivo”.
Il 6 settembre 1980 a Palermo, un delitto misterioso, un francescano, padre Giacinto: ambigua, inquietante figura. Vanta amicizie con mafiosi Paolino Bontate e i suoi due figli: Stefano “il principe”, Giovanni, “l’avvocato”. Alle prime ore del mattino, qualcuno va a fare visita al monaco: gli squarciano il cuore con due colpi di pistola; per garanzia, gli spappolano il cranio. Nelle tasche del frate cinque milioni in banconote nuove di zecca. La cella monastica è una sorta di suite: sette stanze, due riservate per le visite, cinque come appartamento privato; mobili di pregio, poltrone Frau, ricca biblioteca, televisore panoramico, bar personale, impianto hi-fi; qua e là, inequivocabili, i segni di passate presenze femminili. Chissà chi e come ha tradito, padre Giacinto. Al funerale partecipano solo pochi parenti stretti. Padre Timoteo, provinciale dei francescani, la più alta autorità dell’ordine, non trova di meglio che pronunciare un’omelia che si conclude con una frase che certamente viene intesa da chi doveva: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”.
Altro bel personaggio è Agostino Coppola, “don” due volte: parroco di Carini; ma anche affiliato alla Cosa Nostra. Buone credenziali: nipote di Frank Coppola “three fingers”. Amico di Liggio. Quando il boss, trova rifugio in Calabria, e organizza il sequestro del conte Rossi di Montelera, è don Agostino che tiene i contatti con le famiglie dei sequestrati e incassare il riscatto. Viene condannato a 14 anni di carcere. Solo dopo viene finalmente sospeso “a divinis” e spogliato dell’abito talare. Fa però in tempo a celebrare le nozze di Totò Riina con Ninetta Bagarella.
Insomma: sotto il segno della croce, martiri di mafia e mafiosi con la tonaca. Per tornare ai sacerdoti che alle violenze e ai soprusi delle mafie si sono opposti e hanno pagato con la vita: uomini di fede coraggiosi, e lasciati soli; per questo più facilmente eliminati. Personaggi di cui si serba pochissima memoria. Chi conosce la storia di don Giorgio Gennaro, sacerdote della borgata palermitana di Ciaculli? Tocca fare un bel “salto” nel passato: fino al 16 febbraio 1916. Quel giorno due killer della storica “famiglia” dei Greco lo uccidono. Nelle sue omelie don Giorgio denuncia come la cosca pretende di amministrare le rendite ecclesiastiche: con nomi e fatti. Una intollerabile sfida al loro potere.

Non è un caso isolato. Nei primi anni del ‘900 la Cosa Nostra uccide decine di sacerdoti; “colpevoli” di aver preso alla lettera la “Rerum Novarum” di papa Leone XIII. Quell’enciclica è il documento fondamentale della dottrina sociale del cattolicesimo: ribadisce l’avversione al socialismo e il carattere “naturale” della proprietà privata; nello stesso tempo incoraggia, in nome del solidarismo cristiano, l’accordo reciproco tra lavoratori e datori di lavoro; condanna come ingiusta l’eccessiva sperequazione della ricchezza; ammette l’intervento dello Stato a tutela dei lavoratori: riposo festivo, limitazione dell’orario di lavoro; riconosce la liceità delle organizzazioni operaie. Tutto cio’ in concreto, in Sicilia si traduce in Casse rurali e artigiane per concedere crediti agevolati ai coltivatori e strapparli allo strozzinaggio mafioso.
Nel 1910 viene assassinato a San Cataldo (Caltanissetta) padre Filippo Di Forti, economo del locale seminario. Il 29 giugno 1919, a Resuttana, tocca a don Costantino Stella; poi “cade” a Mussomeli don Canalella. A Monreale viene assassinato il canonico Gaetano Millunzi: ha denunciato brogli nell’amministrazione della mensa vescovile. Nel 1920 a Gibellina è ucciso don Stefano Caronia: ha preso di petto il locale capo mafia Ciccio Serra. Nel 1925 a perdere la vita è un sacerdote di Castel di Lucio (Messina), l’arciprete Giovan Battista stimolo. Sempre quell’anno don Giuseppe Segio viene assassinato in pieno giorno, nella piazza di Favara: si è rifiutato di unire in matrimonio un mafioso locale con la cugina. A don Rosario Grasso non si perdona di aver chiesto rinforzi militari per porre fine a una lunga e sanguinosa faida tra cosche mafiose a Vallelunga Pratameno (Caltanissetta). E’ il 1944. Anche lui freddato in pieno giorno, in piazza. Terribile, infine, la storia dell’attentato al vescovo di Agrigento Giovan Battista Peruzzo. Il monsignore nel 1945 è ferito in un attentato di mafia organizzato dai monaci del convento di Santo Stefano di Quisquina, dove si è ritirato a pregare. L’attentatore è un monaco del convento già condannato a sei anni di confino. Vent’anni prima, nello stesso convento, con una sessantina di coltellate, ignoti avevano ucciso il padre superiore.