Giudicare, valutare comportamenti come uccidere e a sua volta uccidersi, non è difficile: è impossibile. Quello dei giudici, che di mestiere devono penetrare, spesso nello spazio di ore, nell’imperscrutabilità della mente umana, è da una parte compito gravoso e penoso; dall’altro in una società non dico civile ma “semplicemente” organizzata, è qualcosa da cui non ci si può sottrarre.
Una possibile via d’uscita è fornita da Leonardo Sciascia. A un certo punto del suo “Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia”, ci si imbatte in questa riflessione di Sciascia-Candido: “…Soltanto i fatti contano, soltanto i fatti debbono contare. Noi siamo quello che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follia. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario…”.
Come dire: cosa fatta capo ha. Si risolve in questo modo il rovello che può attanagliare un giudice (ma anche chiunque di noi): si è quello che si fa, e viceversa. Ma è pur vero che fatta la “cosa”, il “capo” si deve pur cercare di trovarlo.
Il “sogno” di Riposto, paese distante una trentina di chilometri da Catania, è piuttosto un incubo. Per come il “fatto” è stato ricostruito, c’è un ergastolano di irreprensibile comportamento: al punto che beneficia del regime di semi-libertà e di licenze premio; e però qualcosa “cova”. L’uomo si procura una rivoltella e nell’arco di poco tempo, in luoghi diversi, uccide due donne. L’ergastolano, Salvatore “Turi” La Motta si chiama, consumati i delitti si porta poi dinanzi alla caserma dei Carabinieri del paese e lì si toglie la vita con la stessa arma. Omicidi rubricabili nella “semplice” follia? Gli investigatori accertano che un amico dell’omicida-suicida, anche lui pregiudicato, lo accompagna nel luogo dove viene uccisa la prima donna, lo attende, con lui si allontana. Ora è accusato di concorso in omicidio. Sulla dinamica di questi fatti non sembrano sorgere dubbi: fanno fede le immagini delle telecamere di video-sorveglianza della zona. Altri fatti non discutibili: l’assassino sa come si fa; la condanna all’ergastolo si deve al fatto che lo hanno riconosciuto colpevole di essere uno dei componenti del gruppo di fuoco che il 4 gennaio del 1992 davanti a un bar del paese uccide Leonardo Campo, ritenuto uno dei capi storici della malavita di Giarre. Nel giugno del 1999 è tra i destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari di Catania, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia della Procura, nei confronti di 71 presunti appartenenti alla cosca mafiosa Santapaola che opera tra i comuni di Fiumefreddo di Sicilia e Giarre.

“Turi” La Motta è fratello del boss mafioso Benedetto. Un bel “tipo” anche lui: lo chiamano Benito, ma il soprannome che qualcuno conia è “Iddu”; referente dei Santapaola, finisce più volte in carcere. Nel 2017 l’accusa è di omicidio, ma l’anno dopo è già fuori. Lo scettro del potere, nel periodo di carcerazione, resta in famiglia: comanda la moglie Grazia Messina, soprannominata “Idda”: traffici di droga, ma anche estorsioni con il beneplacito dei Santapaola e degli Ercolano. “Idda” è ben degno di “Iddu”: tiene testa a chi muove qualche timida obiezione, gestisce i flussi di denaro, amministra la “giustizia mafiosa”: come la volta che ordina il brutale pestaggio di un ragazzo “colpevole” di aver rapinato un negozio che “beneficia” della protezione del clan. Secondo la Procura Distrettuale di Catania, Benedetto La Motta avrebbe inoltre “ordinato” l’omicidio di Dario Chiappone, ucciso a Riposto nell’ottobre del 2016.
Un bell’ambientino, insomma. C’è una relazione tra il “contesto” e i delitti? L’avvocato Antonino Cristofero Alessi curava gli interessi dell’ergastolano omicida-suicida, è presente in caserma dei carabinieri al momento del suicidio: “Le due donne uccise le conoscevo, era due care ragazze”, racconta. “Non mi ricordo di contatti tra loro o con La Motta. Mai avrei immagino che potesse accadere tutto questo, non c’è stato nessun segnale pregresso, nessuno. Impensabile. Era un detenuto che aveva usufruito dei permessi di legge per buona condotta, lavorava a Riposto, prima in un panificio, poi in una rivendita di formaggi. Durante i due anni di Covid dormiva a casa della sua famiglia, dal 3 gennaio, finita l’emergenza pandemica, rientrava la sera al carcere di Augusta, nel Siracusano”.
Ora la testimonianza del comandante del reparto operativo dei carabinieri, il tenente colonnello Claudio Papagno: “Si era presentato, a mezzogiorno, all’esterno della caserma dei carabinieri di Riposto, armato con una rivoltella, dicendo ‘mi voglio costituire’. I militari, tenendolo sotto tiro, hanno cercato di convincerlo a lasciare l’arma e non fare alcun tipo di gesto insensato, ma, purtroppo, è stato vano perché l’uomo si è puntato la pistola alla testa e ha fatto fuoco”.
Sembra il racconto immaginato da uno scrittore di noir. È invece un “fatto”, composto da vari “fatti” che occorre cercare di incastrare come in un puzzle. Come spesso accade, in Sicilia forse più che altrove, c’è chi parla di un delitto a sfondo passionale. In passato le “corna” e “l’onore” servivano per occultare tanti delitti di altra natura e sfondo. È comunque vero che quasi ogni giorno, in tutta Italia, con sconcertante, inquietante, ripetitività, si consumano delitti da parte di mariti, fidanzati, conviventi che sono accecati da gelosia o non sopportano di essere lasciati, e sopprimono le loro compagne, perché “o mia o di nessuno”. Nelle regioni del Nord come in quelle del Sud, nelle grandi città e in provincia.

Per tornare a La Motta: aveva trovato il modo di allacciare una relazione sentimentale con entrambe le due vittime? O aveva creduto di poterle avere, e da loro è stato respinto? Una, può accadere; due è già meno consueto. E poi, la “sceneggiata” dell’uccidersi davanti al comando dei carabinieri? D’accordo, insondabile è la mente umana, i suoi percorsi possono essere intricati; ma due donne uccise una dopo l’altra, poi il suicidio davanti alla caserma dei carabinieri sfuggono alle “normali” classificazioni di questo genere di delitti. E allora?
“Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza…dovendo vivere in società, ci serve la civile…ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. – Non si può. E che faccio allora? Dò una giratina così alla corda civile. Ma può venire il momento che le acque si intorbidano… se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!”. Così Ciampa, il personaggio più complesso de “Il berretto a Sonagli” di Luigi Pirandello.
C’è davvero di che meditare su quei due “atti” pirandelliani, che racchiudono un’originale teoria sulle relazioni sociali: ci si deve necessariamente barcamenare tra istinti primordiali e regole morali imposte dal vivere in società. Se non si raggiunge un equilibrio tra queste componenti si arriva alla follia. Ma nel ragionamento pirandelliano c’è un terzo elemento da cui non si può prescindere: quello del “pupo” (o se si vuole, della “maschera”): “pupi…siamo…ognuno si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede di essere, e allora cominciano le liti!”. La società, parola di Ciampa/Pirandello, si regge sul delicato equilibrio che tiene a freno follia ed istinto dei “pupi”. Per salvare l’onore delle famiglie coinvolte nell’adulterio Ciampa fa proprio ricorso alla “corda pazza”.
Si può tornare a Sciascia e alla sua teoria dei “fatti”, che ci “fanno”. I “fatti” sono quei due delitti, quel suicidio; che le vittime siano due donne; che a ucciderle sia stato un uomo, legato a un clan mafioso. Ma sono sufficienti questi “fatti”? In Sicilia, ma ovunque…