La riapertura delle scuole è vissuta con sollievo un po’ da tutti, studenti, professori, istituzioni sociali. Dopo gli anni della pandemia, che aveva portato alla chiusura forzata per ragioni sanitarie e alla didattica a distanza, mai come ora il ritorno in classe è parso un segnale di normalità.
È raggiunto un doppio risultato, da un lato la riapertura di tutte le scuole con l’eliminazione della Dad se non in casi eccezionali, dall’altro l’eliminazione delle più rigorose misure di prevenzione. Dunque via le mascherine (pur a portata di mano in caso di necessità) e via le distanze, ritorna dunque il compagno di banco, la possibilità di stare insieme, l’occasione di parlarsi direttamente e di socializzare.
La ripresa delle attività si accompagna a sorprese e scoperte. Alcuni professori vedono per la prima volta i loro alunni senza mascherina, i ragazzi vivono la gioia di sorridere anche con la bocca, non solo con gli occhi. Piccole cose che appartengono al momento e danno serenità. Rimangono certe cautele, ma siamo alle regole pre-pandemia, quelle che consigliano igiene delle mani, sanificazione e areazioni dei locali, accorgimenti sempre utili.
Si affacciano però difficoltà e preoccupazioni, determinate dalla mancanza di personale (molte scuole sono costrette al tempo ridotto per carenze organizzative o mancanza di custodi) oppure imposte dal risparmio energetico. Ora più che mai serviranno investimenti per rendere le scuole autosufficienti attraverso il fotovoltaico e saranno preziosi i contributi del Pnrr.
È mancata a tutti la scuola in questo lungo periodo. Era preziosa la didattica quotidiana, indispensabile la frequenza nelle aule, mai come durante la pandemia se n’è sentita la mancanza. È accaduto come per certi grandi amori, folgoranti e splendenti, che il tempo rende scontati, degradandoli ad abitudine, spegnendo così il primo entusiasmo.
La chiusura ha costretto ad una presa di coscienza. Improvvisa e traumatica. Ha spinto ad una riflessione sulla funzione sociale della scuola, ne ha sottolineato l’importanza nella vita dei ragazzi, ne ha evidenziato l’utilità nell’organizzazione delle famiglie, nell’equilibrio di tutta la società. Le difficoltà in cui si sono trovati tanti ragazzi, costretti – in una fase cruciale della loro crescita – alla Dad, privati del rapporto diretto con i coetanei e del contatto con gli insegnanti sono state spesso le cause determinanti di una condizione psicologica difficile: hanno pagato sulla loro pelle l’isolamento, la distanza dal mondo esterno.

ANSA/TINO ROMANO
Una scuola chiusa, non in grado di svolgere i propri compiti nella pienezza delle possibilità, è un non senso, una contraddizione in termini. Perché la scuola è intrinsecamente apertura alla vita e alla relazione con l’altro. Eppure la soddisfazione che accompagna la riapertura delle scuole non può bastare, perché quella scolastica non è solo un problema di sicurezza ma valoriale, per gli studenti, i professori, la società.
In gioco è il processo educativo, il suo corso, la sua possibile evoluzione. Non è detto che sia bastato il Covid ad aprirci gli occhi e farci (ri)scoprire il valore etico della scuola. Cioè la sua importanza per i singoli e la collettività, la sua essenzialità nel compito di neutralizzare i pregiudizi, esaltare il confronto delle idee, promuovere il desiderio di sapere. Non solo dunque antidoto alla violenza e alla sopraffazione, vaccino etico contro devianze e dissipatezza, ma ricostituente dell’intelletto e dello spirito.
Infatti l’urgenza di riaprire le scuole è vissuta prevalentemente in chiave di sicurezza e di ritorno alla normalità pre-pandemica, tant’è che ci si rallegra del rientro in classe e dei ritmi ordinari. Certo è importante che i figli tornino in classe, ma non può bastare, come del resto non deve accadere che l’attenzione si esaurisca nell’impegno a migliorare l’agibilità degli edifici o la capacità di risparmio energetico. Obiettivi tutti, importanti ma parziali.
Il passo indispensabile è quello di cogliere l’occasione della riapertura delle scuole dopo il Covid per porre il problema dello studio al centro del dibattito culturale, farne una questione vitale per lo sviluppo del paese. Una nazione con una scuola inadeguata è destinata a perire, a perdere il soffio della sua anima. Non sembra proprio che, al riguardo, vi sia la consapevolezza necessaria, almeno a seguire il dibattito politico e i programmi elettorali.
La cultura in genere non ha grande risonanza, fa fatica ad emergere nelle iniziative dei partiti. Come se avesse un ruolo marginale. Eppure proprio la cultura identifica l’anima profonda di un paese. Ne costituisce un settore di grande importanza sociale, e pure economico per i ritorni in termini di lavoro e profitto. Senza per questo incorrere nell’errore di relegarla ad un ruolo ancillare rispetto all’industria turistica, pur in sé meritevole di ogni sviluppo.
La cultura tutta è strumento insostituibile di inclusione e coesione, fattore decisivo nella costruzione di una cittadinanza consapevole. La pandemia ha sovrastato i problemi di fondo che investono la scuola, e questa trascuratezza si vede nei percorsi fallimentari di tanti giovani nelle prove di accesso al lavoro. Ci sono carenze radicali, mai colmate nel corso degli studi.

Nell’ultimo concorso in magistratura i candidati risultati idonei sono il 6% dei concorrenti, pari soltanto a due terzi (220) dei posti a disposizione (310). Non ci sarà possibilità di coprire il vuoto. Un insuccesso clamoroso, che detona carenze di fondo. Non solo scarsa preparazione specifica. Anche carenze espositive, inadeguatezze di linguaggio, e di capacità argomentative.
Su un altro versante, diverso e parallelo, il recente test di ingresso nelle facoltà di medicina, non è andata meglio. Boom di bocciati, metà non lo supera. La metà dei quasi 60 mila studenti che si sono presentati lo scorso 6 settembre non ha raggiunto nemmeno il punteggio minimo pari a 20. Idonei solo 28 mila su 65 mila iscritti. Gli inciampi prevalenti, i quesiti sulle materie specifiche certo, ma anche quelli generali (competenze di lettura, ragionamento logico), tutti rientranti nel lavoro organico della scuola.
Dovrebbe essere questa invece la congiuntura giusta per affermare la centralità della scuola nella vita del paese. Nessuno dei problemi di fondo può essere affrontato con misure d’accatto, senza il respiro lungo che deve accompagnare i grandi progetti, quelli che hanno un posto decisivo nella vita. A cominciare dall’opportunità di rivedere l’idea maligna che la scuola (in verità, come altri settori di primo piano e per certi versi analoghi, per esempio la ricordata giustizia) debba essere impostata come un’azienda, assegnandole scopi produttivi, sganciati da un progetto di crescita umana dei ragazzi, magari scimmiottando certi modelli anglosassoni.
Come se l’innovazione potesse fare a meno della classicità, della tradizione di giganti del pensiero su cui siamo seduti senza esserne consapevoli. Quel mondo da cui dovrebbe partire ogni sforzo di adeguamento ai tempi.
La proletarizzazione del personale scolastico, a partire dagli stipendi, è un segnale del discredito che accompagna oggi la missione educativa, in ultima analisi della sua irrilevanza nel paese. Gli stipendi (di cui la sinistra ha proposto gli aumenti) sono certo un aspetto cruciale, perché gli attuali sono i più bassi d’Europa, ma non basta questa misura.
C’è un problema di valorizzazione dell’insegnamento attraverso il miglioramento della condizione economica degli insegnanti. Non si può prescindere però dalla centralità del discorso educativo, che è fatto di competenze specifiche e di capacità intellettive che la scuola deve saper sollecitare e guidare nella formazione della persona.
La scuola dovrebbe esaltare il valore del lavoro quotidiano, scevro dal culto del denaro e dalla celebrazione della propria immagine, incentrato su aspetti apparentemente opposti ma connessi, la gioia e la fatica. Caratteristiche necessarie nell’acquisire nuovi saperi, nell’aprirsi agli altri, nello scoprire altri mondi, nel sapersi orientare. Ricordava don Milani che la scuola non deve sfornare laureati, ma far diventare gli allievi dei cittadini sovrani. Un’impresa da far tremare i polsi ma in cui si realizza un miracolo: «l’educatore, il maestro, il sacerdote, l’artista, l’amante, l’amato sono la stessa cosa». È tempo di miracoli.