“Non andavamo mai nel rifugio quando suonavano le sirene e cadevano le bombe. La paura di restare intrappolati sotto le macerie era più forte della paura degli aerei con i loro micidiali ordigni. Con i miei fratelli preferivamo uscire nei prati e aspettare che il rombo degli aerei cessasse. Era pericoloso, lo so, ma non riuscivamo a stare come topi nelle cantine. Guardavamo le scie luminose della contraerea, ma le bombe cadevano senza sosta. lanciate sulle fabbriche milanesi trasformate in industrie belliche. Quell’agosto del ’43 fu spaventoso a Milano”, ricorda mia mamma, allora bambina e oggi signora di 88 anni.
“La claustrofobia che mi sono portata appresso per tutta la vita credo sia nata proprio durante la guerra. Poi il nonno ci ha portato in Valsassina dove eravamo al sicuro. Un piccolo paesino tra le montagne dove erano sfollati in tanti dalla città. Con la nonna siamo rimasti sino a quando la guerra è finita”.
Ogni anno, il 25 aprile, sempre lo stesso racconto che quando ero ragazza ascoltavo distrattamente, ma oggi, mentre si consuma una guerra nel cuore dell’Europa, mi è tornato in mente nitido, proprio come rimangono incancellabili i ricordi materni di quell’infanzia devastata dalle bombe. Tutto si è annebbiato, ma ancora oggi le memorie di quegli anni, di quelle paure e di quegli odi non si sono mai attenuate nella sua mente, perché quello che si è visto di spaventoso da bambini rimane per tutta la vita. E sarà così anche per i piccoli ucraini che hanno visto troppi orrori nella loro breve esistenza.

A me, bambina nata alla fine degli anni ’50, è toccato vedere le macerie che i camion di Milano accumulavano in una cava che è andata via via crescendo sino a diventare una collina che i milanesi oggi chiamano orgogliosamente il Monte Stella, la “montagnetta di San Siro” fatta di case ridotte in polvere, di pezzi di vite spezzate.
Nessun quartiere era stato risparmiato dalla furia dei bombardamenti alleati. Era un via vai continuo e io passavo ore a guardare quelle macerie che crescevano ogni giorno di più, mentre la nonna mi raccontava da dove arrivavano e metteva insieme i suoi ricordi di quel periodo buio della storia italiana, di quei vent’anni di dittatura fascista, di quella folle alleanza con il nazismo che aveva devastato il paese, l’Europa e il mondo, sino alla tragica bomba atomica sganciata su Hiroshima e Nagasaki.
“Mai più” si sono dette le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, ma 77 anni dopo siamo sull’orlo di un terzo conflitto mondiale e nessuno pare in grado di arrivare a un cessate il fuoco dopo due mesi di guerra. Domani il segretario delle nazioni Unite andrà a Mosca da Putin e poi a Kiev da Zelensky. Era ora che l’Onu ci provasse, ma la sua debolezza è evidente davanti alla devastazione delle città ucraine in questi sessanta giorni di combattimenti.
Il 25 aprile l’ho sempre ricordato e quando ho potuto sono andata alla manifestazione di Milano, che non è mai un corteo tra i tanti, perchè è proprio dalla città lombarda che venne coordinata la lotta dei partigiani italiani. Il Corriere della Sera di oggi mostra alcune foto delle cicatrici lasciate dalla guerra sui suoi muri.

Sono segni ormai sbiaditi ma che oggi assumono un impatto diverso mentre sui nostri teleschermi scorre la devastazione in Ucraina. Rivedo con altre emozioni quelle schegge ancora conficcate sui muri di alcuni palazzi, quella R che nessuno ha mai cancellato che indicava il rifugio di piazzale Porta Lodovica, quei buchi di proiettile sui lampioni di piazza della Repubblica. Questo non è un 25 aprile qualsiasi.
Ed è per questo che quella vittoria sul nazifascismo va celebrata e vanno difesi i valori che la nostra Costituzione nata dopo quella atroce guerra ci ha consegnato. Non c’è niente di scontato e la pace è una cultura che si costruisce nelle menti giorno dopo giorno. Deve venire prima della guerra, non dopo.
Vi lascio una poesia che Salvatore Quasimodo scrisse sconvolto in occasione del bombardamento di Milano nell’agosto del 1943
Milano agosto 1943
Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.
Salvatore Quasimodo premio nobel