In un famoso trattatello, L’arte di ottenere ragione, Schopenauer espone alcuni stratagemmi utili allo scopo. Il primo comincia con una parola: “L’ampliamento”.
Voi dite che la remissione in libertà di Giovanni Brusca è una questione precisa, che riguarda gli specifici delitti che l’hanno reso famigerato, e subito, come un fungo, ecco “l’ampliamento”: eh, ma è la Legge! E che c’entra “La Legge”? Che è, per definizione, un provvedimento “generale ed astratto”? E chi ne intende parlare? E perché, allora, il “dibattito”, subito si è ritagliato un simile anonimo idolo polemico?
In un tempo che pare avere smarrito l’uso della parola, anche avanzare qualche ipotesi è già esercizio impervio. Ma proviamo lo stesso.
Una prima impressione è che tutto questo parlare di “Leggi”, inalberandole come se fosse questo il punto, serva a non parlare di magistrati. Giacché, essere o non essere ammessi al Programma di Protezione, alle riduzioni sanzionatorie, al trattamento penitenziario speciale, cioè a quello che comunemente viene definito come lo status di “pentito”, è effetto di una scelta: la scelta di uno o più magistrati che hanno funzioni di Pubblico Ministero (compaiono anche autorità amministrative, ma comanda la toga).

Anche una Legge si può discutere, come tutto in una società libera, ma, ora, qui non la si intende discutere. Tuttavia, discutere della Legge “in generale”, consente un vantaggio non trascurabile: si può annacquare una questione di urticante specificità come questa, in una caciara ecumenicamente sterile, ed alimentare la propria rendita di posizione politico-ciarliera (questa cosa della chiacchiera a costo zero, della “Legge”, è piaciuta da morire a quasi tutti gli esponenti politici, e ai vari “cani da guardia”: fate un giro su Google e mi dite).
La caciara si può innescare e alimentare in due modi reciproci: o affermando che interrogarsi criticamente sulla ritrovata libertà di Brusca, serva solo “a smantellare un prezioso strumento per la Lotta-Alla-Mafia”, eccetera. E qui non è difficile sorgere le sagome dei travaglidi e similari.
O, in un altro modo: solo apparentemente opposto al primo, ma in effetti a questo complementare: affermando che “indignarsi” è da forcaioli: perché l’Ergastolo “reale” confligge con “il principio rieducativo della pena”, e, soprattutto, è elemento portante di quella “fabbrica dei pentiti”, che, si dice, dovrebbe essere contestata anche da quanti criticano la remissione in libertà di Brusca.
Il cd “Ergastolo Ostativo”, si prosegue, è il contraltare del “pentimento”: se parli esci, altrimenti, no. Perciò, chiedere che qualcuno, e fosse solo uno, resti in galera a vita per la particolare efferatezza dei suoi delitti, non è molto diverso che affermare la necessità di questa stessa pena per chi “non si pente”. L’unico modo per conseguire un risultato giuridico e culturale degno di una vita civile, si conclude, è allora smontare “la durata perpetua”, in ogni caso, come “ingiusta in sè”.

Dei travagli di non intendo oggi occuparmi. Che non vogliano si parli dei magistrati, è persino comprensibile. Ma due parole sulla pur generosa corrività degli altri si devono spendere.
Ciò che rende incivile l’Ergastolo Ostativo è “l’Ostativo”, non “l’Ergastolo”. Non la sua durata, ma il suo condizionamento. Il quale condizionamento agisce in due direzioni. Sia, sventolando agli occhi del condannato le chiavi della cella, dicendogli, nè più nè meno, che la porta è lì, e spetta solo a lui se farla aprire o meno. Basta che porti un collo da tagliare al posto del suo. Sia postulando che la reclusione non possa in alcun modo determinare una reale maturazione autocritica: se non certificata da quell’opaco contrabbando. A presidiare, nei singoli casi, entrambe “le direzioni della inciviltà” sta un magistrato, non “La Legge”. La “Legge” si limita a stabilire una possibilità, non un obbligo, ovviamente.
Così va tutto a posto: io, Pubblico Ministero, faccio un figurone, e tu, egregio “collaboratore”, poi fare quello che ti pare meglio. Ma questa miseria che è concreta, e non astratta, frutto di volontà e non di qualche “automatismo”, non muterebbe, ed in effetti non muta, se, anziché sull’Ergastolo, il giochino avesse luogo a fronte di una pena a vent’anni di reclusione, o a dieci: diversa la “durata”, identico il mercimonio.
Perciò, rovesciando la prospettiva, non è l’Ergastolo “reale”, a risultare in assoluto ingiusto: ma la sua riduzione a strumento negoziale. Sia chiaro: l’Ergastolo è una pena-limite: ma vi sono sempre “casi rari” in ogni vicenda umana, sociale o politica; e di questi casi rari bisogna occuparsi. Senza caciara, preferibilmente.

Guardiamo ad un Maestro. Cesare Beccaria è stato la coscienza civile che ha combattuto la pena di morte; che ha promosso con superiore fermezza morale “la dolcezza della pena”, in un tempo in cui “tratti di corda” e lacerazioni di carni erano pratica ordinaria. E tuttavia, due “casi rari” volle prevedere, in cui la pena di morte andava mantenuta: i delitti di attentato all’autorità sovrana, e quando la morte “fosse il vero e unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti” (Dei Delitti e delle Pene, Cap. XXVIII). Si è osservato che qui Beccaria avrebbe voluto cedere al potere costituto, lasciandogli uno spiraglio per esercitarsi, e per salvare, così, il suo “libruccio” da sicura censura e persecuzione. A ritenere sia stato questo a motivare quella sua articolazione, gli si farebbe un grande torto. Si capisce, invece, che Beccaria non fu un ambiguo, o un saltafosso. Fu un uomo che, mentre sosteneva ogni sforzo contro il buio spesso di secoli, si pose di fronte al “caso raro”: e, semplicemente, decise di non fuggire, di non buttarla in caciara.
E così si dovrebbe poter fare anche oggi: affermando che le prodezze con l’acido su un bambino (“’U cagnulieddu”), e quelle balistiche sulla collina di Capaci, e la stessa sua serialità omicida, ben avrebbero potuto meritare a Brusca un “No: tu, no” (del resto, a confermare che non ci sono automatismi “di Legge”, basti ricordare che fino all’inizio del 2000. Brusca fu tenuto a bagnomaria, per circa tre anni e mezzo, nell’amorfa condizione di “dichiarante non collaborante”).
E chiedendo conto ai magistrati del contrario svolgimento processuale e penitenziario. Non alla “Legge”. Ma siamo nel tempo di “Palamara/Amara”; nel tempo della Magistratura Intoccabile, unica autentica Casta: per di più, protetta da molti ruffiani e da qualche distrazione da chi pure generalmente si oppone ai suoi abusi. Perciò, non si può.