Stiamo parlando di un omicidio, commesso a Colleferro, un bel borgo medievale vicino Roma, nella notte fra sabato e domenica scorsi. Ne è rimasto vittima un giovane di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, cittadino italiano, originario di Capoverde.
Gli accusati del delitto, entro un quadro indiziario complessivamente consistente, ma di cui, tuttavia, devono essere ancora accertati tutti i precisi profili, sono quattro persone del luogo, pressocché della stessa età della vittima: i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia.
Sembra ci sia stata una rissa, nella quale il povero Willy sarebbe intervenuto per pacificare le parti, e per soccorrere un amico, finendo invece con l’avere la peggio.
Il fatto ha scosso l’opinione pubblica, per la particolare violenza che l’avrebbe connotato: Willy sarebbe stato finito a calci e pugni. Inoltre, grande seguito di interesse, hanno suscitato le abitudini di vita degli indiziati: dediti ad arti marziali; il compiacimento manifestato su Facebook dopo il fatto; il loro riconoscersi in un modello in cui la forza fisica e l’attitudine ad usarla, li avrebbero già resi come una fonte di inquietudine per la vita di Colleferro.
Da qui, il caso ha finito con l’innescare una catena di reazioni “social”, che pongono il problema di quali siano le condizioni in cui dovrà svolgersi il futuro processo, dato che la regola aurea sarebbe quella per cui il giudice abbia una “vergin mind”.
Seguono alcune brevi riflessioni che, a partire da questa vicenda, tenteranno di descrivere lo stato presente della civiltà italiana; e l’inadeguatezza imbarazzante con cui la legge vigente si pone di fronte al tumultuante succedersi della cd evoluzione massmediologica.
La “Rimessione del Processo” sarebbe un istituto esattamente volto a tutelare la serenità del giudizio; ma, poveretta, è diventata materia fantasy.
Sentite: “…quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo…la corte di cassazione… rimette il processo ad altro giudice…”
Fa quasi tenerezza, quel “gravi situazioni locali”, scritto nel Codice di Procedura Penale: in un tempo in cui ormai milioni di account, di followers, dominano una dimensione senza spazio riconoscibile: spesso, senza nemmeno identità certe.
Ma è il “turbare lo svolgimento del processo”, che definisce un’impotenza della norma così vasta, da risultare persino indefinibile.
Il mondo presupposto è quello con cavalli e stazioni di posta, e delle porte cittadine. Del “un fiorino” di Troisi e Benigni. Dove lo spazio fisico esauriva e, però, si vuole che pure tuttora esaurisca, “l’estensione” delle possibili interazioni umane.
Posto un simile perimetro, se queste interazioni sono tali da turbare il giudizio, uno spazio fisico nuovo (nel nostro caso, un altro “Distretto di Corte di Appello”) non può che introdurre un mondo nuovo, con altre interazioni, del tutto genuine: perché, o del tutto separate o, si può almeno auspicare, sufficientemente separate da quelle dell’ “altro mondo”.
Vi pare una cosa che sta in piedi?
E non sfugga che questa beata amenità, viene presentata come una “extrema ratio”: turbamenti “non altrimenti eliminabili” (sorvoliamo sugli affanni lessicali). E certo, perché no: potrebbe pure darsi che in un certo “Distretto” si comunichi ancora come ai tempi di Leonardo da Vinci.
Oggi, in effetti, bisognerebbe riconoscere che la comunicazione “socializzata” è in sè turbamento: perché non è comunicazione, ma stordimento, tumulto, rumore. Tale da “turbare” chi ha bisogno di calma: per giudicare, innanzitutto.
Né, per cogliere questa “contraffazione in sé”, della parola e del pensiero, occorre porsi di fronte alle minacce di morte rivolte ai difensori di due dei quattro indiziati dell’omicidio di Willy. Queste, anzi, sono manifestazioni facilmente riconoscibili di umana spregevolezza.
Il problema è “la macchina”, e il suo potere di assordare, di inibire, di soffocare, facendo mostra di promuovere l’innocenza e la libertà delle parole che usiamo scambiare durante la spesa.
Perciò, semplicemente, bisognerebbe vietare ogni possibilità di “commento” su casi giudiziari.
Non, dunque, perché il singolo commento non possa essere in sé civile e sereno; ma proprio perché “la macchina” lavora sull’insieme: e l’insieme risulta inevitabilmente e incontrollabilmente caotico.
Che debba essere così, vale a dire caotico, anzi, è persino un “telos”: uno scopo qualificante. Uno scopo trasparente e rivendicato come un merito fondamentale da gestori e proprietari della “macchina”. Solo che il Caos programmato è definito “nesso”, “comunità”, “comunicazione”.
Conseguita una certa “massa critica” (e qui siamo su ordini di grandezza da pioggia del diluvio universale), nessuna parola, nessun pensiero sono realmente possibili: ma solo collettivi “turbamenti”.
Perciò, un Processo oggi, se interessa “il grande pubblico”, è “turbato in sé”. È ontologicamente (ma non giuridicamente) “nullo”.
S’intende che, inibire il “commento masso-digitale”, sebbene tecnicamente possibile (la “rimozione di contenuti” è prassi quotidiana, e la definizione di “nostro standard” in questo senso, sarebbe del pari agevole). Ma è politicamente utopistico.
Non si tratterebbe di una “cattiva utopia” (o distopia), ma proprio di un’Utopia.
Allora, la conclusione terribile è questa: che risulta un’Utopia, perché “non è seriamente discutibile” che un Giusto Processo, cioè, non “turbato”, sia un “bene pubblico” di rango infinitamente superiore al “diritto di calca”: cioè, ad una “parola” che non sia un mero suono (o mero tratto grafico).
Nessuno (ancora), ad esempio, rivendica “il diritto” di conoscere e a “commentare”, via social, fatti e dati concernenti la sicurezza nazionale.
Ma le tricoteuses vanno sempre bene. Distraggono, appagano, rassicurano: perché i “circenses”, come nessun’altra invenzione politica, riescono a consolidare l’esistente, e il potere che vi troneggia.
In alternativa, una Utopia più dolce potrebbe essere la “Rimessione del Processo sulla Luna”.
Ma sulla faccia nascosta.