Il Partito Democratico sta affrontando una dura realtà: l’elettorato non si identifica più con i valori tradizionali del partito.
Secondo un sondaggio YouGov dei giorni scorsi un numero record di elettori, quasi il 59 %, ne ha una opinione sfavorevole, la più alta percentuale dal 2008. Il partito è in una crisi profonda, incapace di arginare la caotica offensiva lanciata da Donald Trump e di proporre alternative e soluzioni. Per ora non c’è una strategia chiara per fermare l’agenda di Trump e per cercare di riconquistare quell’elettorato disilluso che non è andato ai seggi. I legislatori democratici, gli attivisti e gli strateghi di tutto lo spettro ideologico sono impegnati in un acceso dibattito su quanto le elezioni del 2024 abbiano danneggiato il partito, un esame introspettivo che sta producendo i primi sforzi della ripresa
Ovviamente ci sono forti contrasti interni: l’Associazione dei Governatori Democratici si è riunita nei giorni scorsi e ha chiesto al senatore Chuck Schumer, leader della minoranza democratica al Senato, di compattare i senatori democratici e bloccare i tentativi di Trump di congelare i finanziamenti federali già approvati dal Congresso. Schumer non ha da solo le armi per contrastare una simile sfida, ma rapidità con cui il presidente ha imposto la sua volontà al governo ha dato ulteriore urgenza alle discussioni su chi sarà il prossimo leader del partito. Sabato il Democratic National Committee dovrà scegliere il nuovo presidente.
Otto candidati sono in lizza per la carica lasciata da Jaime Harrison, ma Ken Martin del Minnesota e Ben Wikler del Wisconsin, sono secondo molti i due che hanno le maggiori possibilità di essere nominati. Entrambi presidenti statali del partito non promettono radicali cambiamenti alla strategia fino ad ora adottata. Sono convinti che la pesante sconfitta alle elezioni di novembre non abbia nulla a che fare con la piattaforma politica programmatica e che La debacle sia stata causata solo dalle circostanze che hanno determinato il ritiro di Biden e la quasi forzata entrata in scena di Kamala Harris. Quelli che non condividono questa opinione, tra cui Faiz Shakir, l’ex capo della campagna di Bernie Sanders e l’ex candidata alle primarie Marianne Williamson, sono molto più radicali nei loro giudizi, ma la stragrande maggioranza dei delegati li considera come sognatori utopisti.
Il dibattito è incentrato in gran parte sulle prossime campagne politiche: messaggi, strategia dei media, raccolta fondi e organizzazione sul territorio. Su questi temi, i candidati concordano e tutti sono convinti che bisogna fare necessari cambiamenti per tornare a fare presa soprattutto tra gli elettori della classe operaia. Molte voci forti nel partito chiedono una reinvenzione. Ma altri propongono un approccio attendista, convinti che alla fine ci sarà sarà una reazione dell’opinione pubblica contro la capricciosa agenda di Trump che li porterà a riconquistare la Camera nel 2026.

I candidati alla presidenza del partito sono otto ma i 448 membri del DNC credono che questa sarà solo una sfida tra Martin, 51 anni, e Wikler, 43 anni.
Marianne Williamson, attivista e scrittrice; Martin O’Malley, ex governatore del Maryland e funzionario dell’amministrazione Biden e Faiz Shakir, hanno poco seguito.
Il fatto è che mancando oggi un leader carismatico che sappia ridare la carica giusta al partito, c’è la sensazione che i delegati preferiscano qualcuno a conoscenza dei meccanismi strutturali, che sia proattivo e che si dedichi al poco affascinante lavoro di costruire le strategie a livello statale sul territorio. Martin promette di essere “l’organizzatore in capo” se eletto. E Wikler vuole imporre una strategia politica proattiva per tutti i 50 stati.
Con Trump che spinge i limiti del potere presidenziale, ora i Democratici non hanno un leader in grado di contrastarlo, non hanno una strategia chiara per fermare la sua agenda e nessun piano per prepararsi alle elezioni di Midterm del 2026. Il prossimo presidente del DNC sarà di fatto il volto del partito nei media. Dietro le quinte dovrà dare la forma al messaggio del partito, alla strategia politica nazionale e a quella statale e deciderà come spendere decine di milioni di dollari delle donazioni politiche.
Non è un lavoro facile. I leader democratici devono ancora capire e digerire cosa sia andato storto nelle ultime elezioni, quando il partito ha perso il voto popolare per la prima volta in 20 anni e ha visto significative defezioni tra i giovani, gli afroamericani, i latinoamericani e i bianchi della classe operaia.
Per ora, i candidati principali promettono di abbracciare una nuova strategia mediatica per raggiungere un pubblico più ampio. Vogliono anche raddoppiare l’impegno nell’organizzazione, riecheggiando la “strategia dei 50 stati” dell’ex presidente del partito Howard Dean. Ma è evidente che questo non sarà sufficiente. Alle ultime elezioni non sono mancati i soldi per la campagna elettorale, quello che è mancato è stato il messaggio in grado di portare gli elettori alle urne.
Un altro compito del prossimo presidente sarà quello di organizzare le prossime primarie. La raccolta fondi è una delle principali controversie delle elezioni. Wikler ha il sostegno di molti miliardari, soprattutto quello di Reid Hoffman, co-fondatore di LinkedIn, ma questa dell’appoggio dei più ricchi è un’arma a doppio taglio perché se il partito Democratico vuole attaccare Trump per i suoi stretti legami con Musk e con i miliardari e titani della tecnologia, non può allacciare rapporti con i miliardari che li sostengono.