Spostare gran parte della popolazione palestinese verso altri Paesi arabi, come Giordania ed Egitto, per “ripulire” la Striscia di Gaza. A proporlo è stato sabato Donald Trump durante una conversazione di venti minuti con i giornalisti a bordo dell’Air Force One, in cui ha anche annunciato la revoca del blocco alla consegna di bombe da 2.000 libbre a Israele.
“Le abbiamo sbloccate oggi,” ha dichiarato Trump, che alla domanda sul perché avesse rimosso il divieto, ha risposto semplicemente: “Perché le hanno comprate.”
Trump ha spiegato di aver discusso la questione dei trasferimenti di palestinesi con il re Abdullah II di Giordania e di voler affrontare il tema anche con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. “Vorrei che l’Egitto accogliesse parte della popolazione, circa un milione e mezzo di persone. Ripuliamo tutto e diciamo: ‘È finita.’”
Il neo-presidente ha inoltre lodato la Giordania per la sua capacità di accogliere rifugiati palestinesi, pur suggerendo che il regno potrebbe fare di più. “Ho detto al re che mi piacerebbe vedervi accogliere altri, perché Gaza al momento è un disastro totale.”
L’idea di uno spostamento di massa della popolazione palestinese contrasta profondamente con il legame storico e identitario che i palestinesi hanno con Gaza. Trump si è detto tuttavia convinto che “la situazione attuale è insostenibile” e che Gaza è come un “cantiere di demolizione” dove la maggior parte delle infrastrutture è distrutta e la popolazione soffre enormemente. “Preferirei coinvolgere le nazioni arabe e costruire alloggi altrove, dove queste persone possano vivere in pace.”
Sarà però difficile superare le resistenze da parte di entrambi i Paesi. Sia l’Egitto che la Giordania, infatti, pur avendo firmato accordi di pace con Israele, sostengono la creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est, conquistati da Israele nella guerra del 1967 – e temono che lo spostamento permanente della popolazione di Gaza renda impossibile questo obiettivo.
Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha messo in guardia contro i rischi legati al trasferimento di un gran numero di palestinesi nel Sinai, al confine con Gaza. Un simile scenario, secondo al-Sisi, potrebbe replicare quanto accaduto in Libano negli anni Settanta, quando l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat trasformò il sud del paese in una base per attacchi contro Israele. La crisi dei rifugiati e le azioni dell’OLP contribuirono a innescare una guerra civile di 15 anni, durante la quale Israele invase e occupò il sud del Libano dal 1982 al 2000.
La Giordania, che nel 1970 espulse l’OLP dopo scontri armati, ospita già oltre 2 milioni di rifugiati palestinesi, la maggior parte dei quali ha ottenuto la cittadinanza. Il re Abdullah II ha più volte respinto con fermezza l’idea, sostenuta da alcuni ultranazionalisti israeliani, di considerare la Giordania come uno “Stato palestinese” per permettere a Israele di mantenere la Cisgiordania, vista come il cuore biblico del popolo ebraico.
Trump potrebbe tuttavia persuadere i due alleati regionali attraverso uno dei suoi strumenti preferiti: la leva economica. Sia il Cairo che Amman ricevono miliardi di dollari in aiuti statunitensi ogni anno e al-Sisi sta già facendo i conti con una grave crisi economica.
A far discutere è anche la decisione di riprendere la fornitura di bombe allo Stato ebraico, in netta rottura con l’approccio dell’amministrazione precedente di Joe Biden, che aveva bloccato l’invio di armi a Israele nel maggio scorso per limitare i danni ai civili. L’ex presidente aveva accusato Tel Aviv di usare armi americane per colpire aree densamente popolate, come Rafah, causando gravi perdite tra i civili. Ciononostante, lo stesso Biden aveva successivamente autorizzato l’invio di 1.700 bombe da 500 libbre.